La trappola dell’accettazione

Qualche giorno fa, mentre parlavo senza filtri di una parte del mio corpo –  il dettaglio anatomico è irrilevante – mi è sgattaiolato tra le labbra un automatismo linguistico che mi ha portata a dire con tono sommesso: accetto quella parte del mio corpo!  Mentre pronunciavo queste parole credo di aver storto il naso e creato un nodo nella bocca del mio stomaco, producendo un fastidio amaro capace di tenermi in riflessione per quasi una settimana sul significato dell’accettazione.

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La maggior parte delle volte che utilizziamo la parola accettazione siamo in una modalità espressiva giudicante, verso noi stessi/e o un’altra persona, attraverso la quale creiamo una forma gerarchica in cui chi o ciò che accettiamo non è posizionato al nostro livello, ma è collocato in uno spazio separato, confinato, sotto il nostro controllo.  Nonostante i due concetti siano spesso differenziati, accettare può significare tollerare qualcosa di cui si riconosce l’esistenza, a cui diciamo “tu puoi stare qui, ma stai al tuo posto” per renderlo invisibile, neutralizzarlo, depotenziarlo. La dinamica dell’accettazione si costruisce attorno all’asimmetria di potere: alla possibilità di accettare di una persona o un gruppo corrisponde una contropartita per cui qualcuno dovrà essere accettato. Spesso chi ha la possibilità di accettare è legittimato da una norma che in un contesto specifico lo autorizza a esercitare quel potere di far passare o meno l’Altro/a.

Prendiamo un esempio molto semplice. Quando ci rivolgiamo ad un servizio sanitario ci viene richiesto come utenti di passare in accettazione. Per poter accedere ad una prestazione medica dobbiamo sottoporci al giudizio di un’altra persona che valuta se abbiamo il diritto di oltrepassare il confine oppure no, se possiamo usufruire di una esenzione o dobbiamo corrispondere un ticket. Chi accetta è posizionato al servizio di una norma che lo autorizza ad accettare o meno. Questo dispositivo, virtuosamente costruito per generare ordine a favore di un principio organizzatore, produce relazioni gerarchiche in cui la distribuzione del potere è fortemente squilibrata. Non è un caso che molte istituzioni pubbliche e servizi privati  abbiano iniziato a chiamare gli sportelli, piuttosto che di accettazione, di accoglienza.

Lo stesso principio degli sportelli di accettazione si realizza in ogni sistema relazionale, nei rapporti sociali tra gruppi, interpersonali e affettivi, così come nei processi intrapsichici, ponendosi come elemento portante di esperienze conflittuali e talvolta discriminatorie.

Espressioni come accetto il mio collega di lavoro omosessuale, accetto la mia vicina di casa rumena, accetto che mia moglie esca da sola con le amiche sottintendono una concessione di permesso, equivalgono a dire: anche se sei omosessuale, rumena, donna, ti concedo di esistere accanto a me, ma io mi elevo almeno ad un rango superiore, in quanto eterosessuale, italiano, uomo. Questa possibilità è garantita da norme culturali e socialmente sostenute, non solo da chi le promuove attivamente ma anche da chi non ha alcun pensiero al riguardo e le da perciò per assodate, scontate, ovvie, normali. Tali norme fondano la loro efficacia attraverso la creazione di dualismi proposti come naturali: eterosessuale/omosessuale, italiano/rumeno, marito/moglie. L’accettazione ha un retrogusto amaro di paternalismo, richiama quell’insieme di gesti messi in atto da chi disponendo di un potere decide arbitrariamente di concederlo ad altre persone, a condizione che lo esercitino entro limiti ben definiti e sotto stretto controllo.

Il carattere subdolo dell’accettazione governa silenziosamente anche l’intimo rapporto con sè stessi. Quante volte ci sentiamo dire e ci diciamo che dobbiamo accettare i nostri difetti o una malattia? Che siano caratteristiche fisiche o aspetti legati alla personalità, i cosiddetti  difetti diventano tali quando, sottoposti al confronto di una norma, se ne discostano. Un naso può diventare difettoso quando messo a rapporto con un modello,  normativo appunto, che definisce lunghezza, linee, apertura delle narici, intensità di peluria, non supera la prova del confronto e quella differenza viene trasformata in un ostacolo da normalizzare con un intervento di chirurgia estetica o neutralizzare accettandolo così come è. Mica facile: accettarlo significa riconoscerne la natura difettosa, manchevole, imperfetta, ma che, comunque e nonostante sia difettoso, va bene così.

Quando è una malattia, di qualsiasi tipo, a dover essere accettata, il processo è ancora più complesso. Nella percezione di un organo malato tendiamo a confinarlo in una zona di non salute, separarlo con l’immaginazione dal resto del corpo, creare una barriera tra la parte sana e quella malata per poterla accettare. Da un punto di vista psicologico questa operazione mentale nasce da un meccanismo di difesa che permette di tenere a bada il dolore e la difficoltà di integrare gli aspetti di sofferenza legati alla malattia ma allo stesso tempo ostruisce la possibilità di accogliere e attivare la comunicazione e connessione in senso globale e olistico di tutti gli organi o apparati corporei il cui contributo è fondamentale per la guarigione .

L’automatismo con il quale trasformiamo le differenze tra persone e gruppi sociali in ostacoli da neutralizzare, i tratti somatici in difetti da nascondere, le parti malate in territori da isolare, gli aspetti della personalità in sintomi da curare, attiva colture virali capaci di  produrre il virus della dissociazione e della discriminazione. L’accettazione, nel tentativo di neutralizzare un aspetto disturbante la norma, rischia di paralizzare le possibilità di osservazione, accoglienza, dialogo e può attivare escalation conflittuali potenzialmente dannose per la salute collettiva.

Esplorare e analizzare i rischi della “accettazione a tutti i costi” porta a riflettere sulla possibilità, o forse necessità, di sperimentare modalità altre di approccio alle differenze, basate sull’ascolto, sull’empatia, sull’accoglienza. Se l’accettazione separa, chiude, confina, l’accoglienza apre, dialoga, osserva, attiva la curiosità, si chiede il perché delle cose destrutturando le gerarchie che ne definiscono un ordine. L’accoglienza permette il rispetto e il confronto paritario, accompagna verso l’uscita da uno spazio di giudizio verso un territorio di esplorazione delle differenze e, perché no, delle possibili dissonanze, e permette di elaborare le conflittualità anziché evitarle o renderle distruttive. Questa operazione richiede prima di ogni altra cosa di fare un lavoro su di sè, sulle proprie aree limite, chiedendoci cosa accettiamo, cosa non riusciamo a rispettare di noi e degli altri. Occorre sostituire il giudizio che svalorizza, toglie prezzo alla stima personale e verso l’altro, con l’ascolto accogliente, che restituisce valore, simmetria, rispetto, possibilità positivamente trasformative ed evolutive. Occorre uscire dalla dicotomia noi/voi, abbandonare il noi, passare all’esperienza personale e lasciare andare la gelosia con cui ci si aggrappa alle proprie convinzioni.

 

Io vedo che, quando allargo le braccia, i muri cadono.
Accoglienza vuol dire costruire dei ponti e non dei muri.
Don Andrea Gallo

Un pensiero su “La trappola dell’accettazione

  1. Molto interessante… tanti spunti riflessivi… sul proprio essere e sui rapporti con le persone 😉
    Adesso mi hai messo il tarlo su un mio difetto fisico e sulla sua accettazione (?) O per meglio dire accoglienza? Che dura da tutta una vita… 😅 Mannaggia… Se non fossero le 6 del mattino, mi fermerei ancora a pensare 😂😂😂

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