In questo nido virtuale puoi trovare la presentazione dei servizi di supporto e sostegno psicologico proposti nell’ambito della mia attività professionale, informazioni aggiornate relative a laboratori di educazione alla sessualità ed altri eventi di sensibilizzazione, articoli di approfondimento su temi psicologici e sessuologici, pubblicati anche in risposta ad eventuali stimoli, commenti e richieste di chi visiterà le pagine interattive.
Negli ultimi mesi durante alcuni interventi sull’identità di genere fatti nelle scuole superiori e all’università, diverse persone hanno chiesto come potessero parlare alle figure adulte di argomenti come genere, identità, orientamento erotico sentimentale. Come si può ridurre il gap generazionale con genitori, parenti, insegnanti, medic*? Perché sembra un linguaggio incomprensibile? Perché si usano molte parole inglesi?
La prima questione su cui dobbiamo interrogarci riguarda i motivi per cui la comunità lgbtq+ si è dotata di una lingua che per molte persone risulta incomprensibile. Partiamo da un breve ma necessario riferimento storico, ci serve per comprendere.
La lingua lgbtq è l’espressione e il prodotto di una comunità che nel tempo si è dovuta dotare di dispositivi linguistici e culturali propri per garantire l’interazione e talvolta la sopravvivenza tra i suoi membri in ogni parte del mondo. Codici linguistici e parole segrete, note solo all’interno della comunità, nella storia lgbtq, hanno avuto la funzione di proteggere una popolazione da persecuzioni, attacchi e violenze e di definirne i confini per garantirne la sopravvivenza. Quando parliamo di comunità lgbtq ci riferiamo ad un gruppo o segmento della popolazione accomunato da alcuni tratti che sfuggono, contrastano, reinterpretano le norme su genere e sessualità nell’età contemporanea, ovvero quelle norme elaborate teoricamente nell’Occidente europeo e nordamericano tra il XIII e il XIX secolo, tradotte in pratiche concrete (legali, mediche, religiose, socioculturali) che ancora oggi regolano le nostre vite. Si tratta di una comunità non omogenea al suo interno, che presenta differenze e aspetti di conflittualità tra soggettività ed esperienze situate in contesti geografici e culturali diversificati. È una comunità immaginata e costruita: così come genere e sessualità non sono leggibili in termini di naturalità, ma sono costrutti sociali, anche le soggettività lgbtiaq+ non sono astoriche e naturali. Infine, la comunità è transnazionale e come tale formula strategie retoriche, politiche ed esistenziali per negoziare i propri spazi di vivibilità e visibilità. (1) Tra queste anche la produzione di una vera e propria lingua che in questo senso è creativa, costruita nell’interazione tra i membri, che ne condividono la varietà e le norme per l’uso.
Il ricorso a termini inglesi ha a sua volta diversi motivi, proprio perché la comunità è transnazionale alcune espressioni nascono da subculture localizzate ovunque nel mondo che però sono collegate tra loro e marcate da simboli che ne garantiscono la riconoscibilità e la possibilità di avvicinamento. Servono proprio a questo le bandiere, a marcare un territorio e comunicarlo all’esterno. Se entro in uno spazio in cui ci sono esposte delle bandiere, anche con un piccolo adesivo, so che in quel territorio posso parlare la mia lingua, che probabilmente quel luogo è abitato da persone che fanno parte della comunità a cui appartengo e in cui potrò sentire riconoscimento, rispetto e sicurezza.
L’uso di parole inglesi da parte delle giovani generazioni ha quindi una funzione di differenziazione identitaria ma anche di protezione: parlare in codice in un contesto che non accoglie, perseguita, aggredisce, garantisce la sopravvivenza! L’assenza nella lingua italiana di parole che si riferiscono a una realtà ci dice anche che per la nostra società parlante quella realtà è ancora invisibile. Ci si rende invisibili, si sta stealth, fuori dai radar, ancora una volta, per proteggersi, ma anche perché storicamente è avvenuto un processo di invisibilizzazione. Durante il fascismo, per esempio, in Italia fu adottata una precisa strategia di cancellazione del lesbismo basata sul silenzio, sul non nominare una realtà che fino a quel momento non aveva un referente linguistico in italiano corrente per essere nominata, in modo tale che le persone non potessero riconoscersi. Attraverso il silenzio le persone fuori della norma venivano portate al confino. A differenza del nazismo, il regime di Mussolini non promulgò nessuna legge proprio perché non se ne parlasse, in questo modo lesbiche e gay venivano fatti sparire, condannati alla non esistenza (2). L’uso e il non uso delle parole non è mai neutrale, le parole come creano la realtà possono anche nasconderla: quando nella nostra lingua ci mancano le parole per riferirci ad una esperienza che esiste è importante che ci chiediamo il motivo.
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La storia delle soggettività trans sta attraversando oggi un momento di emersione e di visibilità accompagnata dalla condivisione, ricerca e produzione di parole per dirsi, per parlare di identità di genere, molte delle quali, ancora una volta, sono in lingua inglese, espressioni che sconfinano il binarismo di genere, che cercano il modo per nominare identità ed esperienze che non si riconoscono nelle uniche espressioni presenti nella lingua italiana di uomo e donna e che fino a poco tempo fa ricadevano nella parola ombrello “travestito”, o , se proprio andava bene, “travestite” (3).
Con questa premessa storico-sociale è forse ora più comprensibile il motivo per cui chi non appartiene alla comunità lgbtq+ e/o non si posiziona come alleat*, non ne comprende la lingua: non ne ha avuto bisogno, non è stato socializzat*. La scuola, la famglia e le altre agenzie educative non insegnano la storia, i diritti, le esperienze delle persone lgbtq+, esattamente come per tanti secoli, e ancora adesso, è stata oscurata la storia delle donne, la produzione letteraria, artistica, scientifica fatta dalle donne.
Ma allora come si fa a parlare di LGBTQI+ alle persone adulte? Come fanno insegnanti, genitori, parenti, a imparare?
Si fa esattamente come se si stesse apprendendo una nuova lingua!
Vediamo alcune pratiche che possono essere applicate.
Stare in contatto comunicativo con la comunità di parlanti nativi di una lingua. Ascoltare le persone lgbtq+, esercitarsi a parlare con loro, fare domande, esprimere le proprie difficoltà. Le nuove generazioni, le giovani persone della generazione Z (nate tra il 1995 e il 2010), oltre ad essere native digitali, dialoganti e iperconnesse, sono trans e non binary native, come se avessero due lingue d’origine (le famose L1 ed L2), nel senso che hanno a disposizione in modo immediato, accessibile, facile e fruibile un bagaglio culturale e linguistico che prima degli anni 90 era nascosto e indecifrabile.
Le prossime si possono praticare individualmente, insieme alle giovani persone della vostra vita, in famiglia o anche in gruppo:
Leggere libri, blog, riviste, graphic novel, manga scritti da persone lgbtq+
Guardare serie TV, film, documentari su e prodotti da persone lgbtq+
Ascoltare pod cast e musica prodotta da persone lgbtq+
Partecipare a incontri, seminari, eventi organizzati da associazioni e attivist*
Per imparare una lingua è bene praticarla ogni giorno almeno per mezz’ora.
Se siete giovani persone dedicate da dieci minuti a mezz’ora quotidianamente per parlare con i vostri genitori, in modo semplice e diversificato, dosate pazienza e assertività, usate un linguaggio che renda comprensibile ciò che per voi è ovvio e scontato, ricordate che quando eravate bambin* ci avete impiegato almeno un anno a dire acqua e pappa, e due anni per imparare il nome delle persone che si sono prese cura di voi (da adulti ci vuole molto meno tempo per imparare un nome).
Se siete persone adulte dedicate da dieci minuti a mezz’ora quotidianamente per parlare con le giovani persone presenti nella vostra vita, che siano figl*, alliev*, o chiunque per qualsiasi motivo interagisca e abbia una relazione con voi. Aggiungete e/o alternate il colloquio con le pratiche sopra citate, considerate che mediamente una serie tv dura da 30 a massimo 60 minuti, una puntata di Transparent (4), dura da 29 a 31 minuti. Si può fare!
Tenete conto che potrebbero esserci delle resistenze all’apprendimento, ne vediamo alcune.
Resistenze cognitive: imparare una nuova lingua da adulti è un po’ più difficile che farlo da giovani, ma non impossibile, si imparano nomi di calciatori e cantanti di tutte le nazionalità e in ogni lingua!
Resistenze culturali: far parte di un gruppo sociale lontano della comunità ed essere cresciuti in una cultura in cui il genere è racchiuso nell’equazione “o sei uomo o sei donna” e le relazioni sono solo eterosessuali crea delle convinzioni e dei sistemi di valori che possono essere duri da ammorbidire.
Resistenze psicologiche. Siccome tutt* abbiamo un genere, un’identità di genere, un’espressione di genere, un orientamento erotico-sentimentale, confrontarsi con altre possibilità può mettere in discussione la propria persona e la propria storia, può generare emozioni forti, di paura, vergogna, smarrimento, ma anche di sorpresa, gioia e curiosità.
Resistenze relazionali: essere genitori di una persona lgbtq+, soprattutto se la sua identità di genere non combacia con le aspettative e con l’immagine che si è sognata per la piccola persona che si è messa al mondo, può rendere molto difficile comprendere, accogliere, integrare, ma non impossibile!
La soluzione sta nella relazione, create uno spazio che accolga le resistenze insieme al desiderio di stare insieme, conoscere, crescere e donarsi, le persone adulte ad un certo punto devono imparare da quelle giovani, nutrirsi di quel dono meraviglioso che attraverso il dialogo e il sentire insieme permette di scambiarsi esperienze, paure, desideri e condividere il fluire della vita.
Per le giovani persone, attenzione: se dopo tutte le attenzioni, le precauzioni, le cure notate che le resistenze permangono non insistete, per imparare una nuova lingua ci vuole motivazione, interesse, partecipazione attiva, curiosa e amorevole. Se queste componenti mancano, proteggetevi, coltivate tutte le altre risorse che avete a disposizione: creative, sociali, corporee, emozionali.
E quando parliamo abbiamo paura che le nostre parole non verranno udite o ben accolte ma quando stiamo zitte anche allora abbiamo paura
Perciò è meglio parlare ricordando non era previsto che sopravvivessimo.
Litania per la sopravvivenza. D’amore e di lotta: Poesie scelte di Audre Lorde
Bibliografia
Maya De Leo (2021). Queer. Storia culturale della comunità LGBT+. Einaudi
Nerina Milletti e Luisa Passerini (2007). Fuori della norma. Storie lesbiche nell’Italia della prima metà del Novecento. Rosenberg & Sellier
Porpora Marcasciano (2018). L’aurora delle trans cattive. Storie, sguardi e vissuti della mia generazione transgender. Alegre
Serie TV Transparent, regia di Jill Soloway (2014)
“Il bagno pubblico è l’istituzione sociale più evidente e diffusa in cui la separazione per sesso è ancora la norma e disfare questa separazione potrebbe avere un significato che va oltre la questione dei bagni. Se una donna trans può usare il bagno delle signore il messaggio implicito è che sì, è accettata come donna. Se un uomo trans può usare il bagno degli uomini, vale la stessa cosa”. New York Times, 2016
Il bagno della mia attività è gender free è un’iniziativa che parte dal basso grazie ad una rete di professionist* che desidera diffondere una pratica di accoglienza e rispetto liberando i bagni dal binarismo di genere. Si tratta di una piccola azione capace di rendere affermativo e accogliente il clima dei luoghi in cui lavoriamo e nei quali offriamo un servizio al pubblico. Comunica che ci si trova in uno spazio sicuro che non opera discriminazioni sulla base dell’identità e dell’espressione di genere, riduce l’imbarazzo e il malessere psicofisico di chi si trova costrett* a scegliere in quale bagno entrare. Comunica in modo esplicito che esiste una pluralità di identità e di corpi e che ogni espressione è libera di abitare lo spazio pubblico nel rispetto del proprio sentire, dei luoghi e delle altre persone.
La divisione dei bagni per genere viene accettata socialmente e data per scontata, almeno fino a quando non ci si scontra con l’obbligatorietà che impone una scelta capace di far sperimentare una incongruenza tra la propria identità e la predisposizione degli spazi pubblici secondo il sistema di genere binario. Per molte piccole e grandi persone che hanno un’identità gender variant, trans, gender creative, non binary, i bagni divisi per genere sono una fonte di disagio importante, dal punto di vista psicologico e fisico. Ci si può sentire costrett* ad entrare nel bagno etichettato con il genere diverso da quello che corrisponde alla propria identità per paura di derisione, rimprovero, discriminazione, sanzionamento. Si può scegliere di trattenere pur di evitare di esporsi a queste forme di microaggressione e rischiare di sviluppare infezioni a carico del proprio apparato urinario.
Camilla Vivian, autrice del libro e del blog “Mio figlio in rosa” lo racconta così: “ogni singolo giorno almeno una volta con la mia famiglia c’è questo problema. Ancora prima di uscire si calcola se poter bere o meno in vista del potenziale bagno a disposizione e il ‘trauma’ é ormai così inglobato che a volte in bagno non ci si va proprio anche potendo. Bisogna cambiare per crescere nuove generazioni libere almeno di fare pipì.”
Rendere il bagno gender free della propria attività richiede di prendere consapevolezza di alcuni miti, credenze e stereotipi che richiedono un piccolo approfondimento.
La divisione dei bagni è il risultato del processo di separazione dello spazio pubblico dallo spazio privato e si basa sull’ideologia delle sfere separate I bagni divisi per genere sono il risultato di un processo storico culturale moderno, nascono negli Stati Uniti all’inizio del 19° secolo con la promulgazione di leggi, che oggi definiremmo sessiste, basate sull’idea di proteggere le donne naturalizzando il loro bisogno di prendersi cura della prole e della famiglia negli ambienti domestici. Storicamente la divisione dello spazio pubblico da quello privato ha creato una separazione tra lo spazio occupato dagli uomini con ruoli di potere e grande visibilità e quello occupato dalle donne con ruoli di accudimento e invisibilità. La convinzione per cui le donne vadano protette dalla violenze segregando gli spazi pubblici infantilizza e vittimizza le donne e contemporaneamente costruisce e rinforza un’idea di maschile violento e incapace di governare i propri impulsi.
Stereotipi e credenze che confermano la necessità della divisione dei bagni per genere La divisione dei bagni pubblici per signore e signori naturalizza l’idea che esistano biologicamente due sessi e sottintende che uomini e donne utilizzino in modo diverso i luoghi deputati a tale funzione in base a ruoli considerati stereotipicamente maschili e femminili. Stereotipi secondo cui gli uomini sin da bambini sporchino il bagno usandolo scorrettamente (prendere la mira è una competenza che i bambini sviluppano, non una carenza innata) e che le donne fin da bambine abbiano una vocazione per il pulito, la bellezza (gli specchi sono presenti prevalentemente nei bagni assegnati alle donne, per guardarsi, rifarsi il trucco, essere in ordine), l’accudimento (i fasciatoi per i neonati non si trovano nei bagni degli uomini).
Convinzione che i bagni debbano essere divisi per motivi igienici Quella secondo cui i bagni pubblici non siano igienici e che sia possibile contrarre infezioni, soprattutto sessualmente trasmissibili, è una credenza molto diffusa che incontra l’idea che siano proprio le donne a veicolare malattie. Si tratta di falsi miti non supportati da studi scientifici. Le situazioni nelle quali è possibile contrarre infezioni in un bagno pubblico sono molto rare e sono indipendenti dal genere. Il rischio di entrare in contatto con germi e batteri è presente in qualsiasi luogo pubblico, sia al chiuso che all’aperto .
Pregiudizio secondo cui le persone trans usano i bagni pubblici che preferiscono per esercitare violenza sulle donne Studi internazionali dimostrano che non esiste una correlazione tra la violenza sulle donne e la libertà di utilizzare i bagni pubblici, esiste piuttosto un rischio molto alto che una persona trans e non binary possa subire discriminazioni e violenza utilizzando il bagno adeguato alla propria identità di genere.
Il bagno unisex non ha bisogno di specificazioni Un bagno solo o unisex può essere reso gender free per rendere esplicita la pluralità delle identità e dei posizionamenti di genere e non schiacciare le soggettività con il binomio maschio-femmina non rappresentativo della realtà. Un solo bagno gender free legittima, rassicura in anticipo rispetto al rischio di sentirsi guardat* e al bisogno di porsi delle domande (sto entrando nel bagno “giusto”? Posso entrare? Ci sarà un altro bagno?), comunica un valore e lo diffonde nel clima di quel luogo. Neutralizza una differenza culturale che storicamente è stata naturalizzata, promuove consapevolezza e cultura del rispetto.
L’iniziativa bagno gender free è aperta a chiunque si riconosca nei discorsi e nei valori appena descritti e intenda attivarsi con un piccolo gesto entrando in una rete di pratiche affermative.
Possono aderire:
Studi professionali Piccole aziende Fabbriche Associazioni Uffici pubblici Centri sociali, biblioteche, ludoteche Locali, bar, ristoranti Palestre e club sportivi Circoli culturali Scuole, università, enti di formazione Negozi di abbigliamento Centri estetici, parrucchier* Cinema e teatri
Stampa l’immagine e appendila nella porta del bagno per rendere anche la tua attività gender free.
Scattati una foto e condividila sui social usando l’hashtag #bagnogenderfree
Se vuoi aggiungi l’indirizzo e il nome del tua attività aggiungendo “la mia attività è gender free”
Invita altr* a farlo! Se desideri far parte di una comunità di pratiche affermative scrivi a bagnogenderfree@gmail.com Segui il progetto Gender-Free Toilet e accedi all’archivio https://archive.org/details/@gender-free_toilet dove potrai scaricare gratuitamente altri adesivi e opuscoli informativi.
Finora hanno promosso e aderito: Francesca Fadda – psicologa psicoterapeuta (Cagliari – Dolianova) Maria Grazia Rubanu – psicologa psicoterapeuta (Cagliari) Elena Fadda – osteopata (Cagliari – Dolianova) Giorgia Antoni – nutrizionista (Cagliari) Chiara Mastrantonio – psicologa psicoterapeuta (L’Aquila) Gaia Guastamacchia e Viviana Berretta – studio di psicologia e crescita personale (Carcare, Savona) Marzia Cikada – psicologa psicoterapeuta (Torino)
Gabriella Piana – psicologa psicoterapeuta (Sassari) Chiara Bandecchi – psicologa psichiatra (Cagliari) Giulia Curridori – dottoressa e ricercatrice in psicologia (Cagliari) Valentina Strippoli – psicologa (Fano) Ethan Bonali – attivista non binary Giulia Carta – attivista e volontaria a supporto delle persone Trans (Sardegna) Lila – Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids (Cagliari) Mamo Pizza e catering -di Massimo Mameli (Cagliari) Dani Mitù (Cagliari) Rainbow City Bar (Cagliari)
“Devo andare in bagno. Vorrei poter aspettare, ma non ce la faccio”. Justine mi sfiorò una guancia. “Mi dispiace, tesoro”. Peaches si erse in tutta la sua altezza. “Andiamo. Entreremo insieme a lei”. “No” dissi alzando le braccia. “Così ci arresterebbero tutte.” Mi faceva male la vescica. Se solo non avessi aspettato così a lungo! Tirai un respiro profondo e spinsi la porta del bagno delle donne. Due donne si rinfrescavano il trucco di fronte allo specchio. Una lanciò un’occhiata all’amica e finì di mettersi il rossetto. “E’ un uomo o una donna?”, le chiese mentre passavo. L’altra si girò verso di me. “Questo è il bagno delle donne” mi informò. “Lo so”. Chiusi a chiave la porta del gabinetto dietro di me. La loro risata mi penetrò nelle ossa. “Ma in realtà se quella è un uomo” una disse all’altra. “Dovremmo chiamare la sicurezza e controllare”. Tirai lo sciacquone e annaspai con la cerniera. Magari era solo una minaccia a vuoto, o magari volevano davvero chiamare la sicurezza. Mi affrettai a uscire dal bagno, appena sentii che se ne andavano. “Tutto okay, tesoro?” chiese Justine. Feci di si con la testa. Sorrise. “Hai tolto dieci anni di vita a quelle ragazze”. Mi sforzai di sorridere. “No, non si sarebbero mai prese gioco di un uomo a quel modo. Avevo paura che chiamassero la polizia. Sono loro che hanno tolto dieci anni di vita a me!”.
Stone Butch Blues, Leslie Feinberg
Risorse
Borghi R. Rondinone A., (2019), Geografie di genere, Unicopli
Negli ultimi giorni ho lanciato un piccolo gioco sui social chiedendo alle persone di scegliere un’immagine che raccontasse lo scenario o il luogo in cui sono ambientate le loro fantasie erotiche, pensando di essere il regista o la regista del proprio film. Ho raccolto 40 immagini e insieme al collega psicosessuologo Davide Silvestri sabato 16 le abbiamo commentate durante una diretta su instagram.
Con questo articolo condivido questa preziosa esplorazione che ci ha offerto interessanti spunti di riflessione e suggestioni sulle fantasie sessuali.
Prima di accendere la playlist di immagini facciamo alcune premesse.
Cosa sono le fantasie erotiche?
Sono immagini mentali capaci di attivare l’autoerotizzazione creando fantasie o fantasmi definibili come una vera e propria zona erogena di tipo intrapsichico, che permette alla nostra mente di erotizzarsi, esattamente come ogni altra parte del corpo. Siamo abituat* a pensare che a stimolare il desiderio e l’eccitazione siano stimoli provenienti dall’esterno, la visione di una persona affascinante, che ci piace, che amiamo, la scena di un film erotico o pornografico, una attenzione ricevuta, una carezza, uno sguardo. Esiste un’altra via che parte dall’interno e di cui abbiamo capacità sin dall’infanzia, quella di creare mondi con l’immaginazione e vivere una dimensione parallela capace di interagire con quella materiale. Le fantasie non coincidono con il desiderio, lo precedono o possono alimentarlo, allo stesso modo possono attivare l’eccitazione e sensazioni sessuali genitali molto forti fino al raggiungimento dell’orgasmo, anche senza nessun tipo di contatto fisico.
Da dove vengono le fantasie?
Possono attingere dall’esperienza personale – dall’infanzia e dall’adolescenza – e dall’immaginario collettivo, pescando cioè da elementi della cultura dominante. Ecco perché alcune fantasie sono ricorrenti e comuni a molte persone. Può far storcere il naso ma una delle fantasie più comuni riferite dalle donne è quella di essere prese con la forza da uno sconosciuto, questo non significa certo che si desideri essere violentate, per ogni persona può avere una valenza differente, per esempio può essere legata all’abbandonare il senso di responsabilità e il controllo, o alla possibilità di sperimentare la sensazione di essere fortemente desiderate indipendentemente dal legame che si ha con l’altra persona fantasticata. Questi desideri vanno a prelevare da un archivio di immagini culturalmente condiviso per creare delle vere e proprie scene nella propria mente e attivare l’eccitazione. Il contenuto delle fantasie può essere sessualmente esplicito o implicito: potenzialmente qualsiasi immagine dotata di un valore emotivo per la persona è capace di sollecitare un desiderio ed una sensazione sessuale. Non è quindi necessaria la visione di genitali o di un atto penetrativo per erotizzarsi, per alcune persone può essere il riaffiorare di un ricordo particolarmente piacevole e sensoriale o un’immagine ad esso associata apparentemente svincolata dalla sessualità. Le fantasie possono infatti essere spontanee, quando si presentano senza impegno e all’improvviso senza alcuna intenzionalità, oppure volontarie, frutto cioè di una specifica elaborazione di stimoli quotidiani, di ricordi, sensazioni, desideri.
A cosa servono le fantasie?
Le immagini erotiche hanno principalmente tre funzioni:
edonica: finalizzate alla ricerca del piacere, al risveglio del desiderio e dell’eccitazione e al raggiungimento dell’orgasmo.
compensatoria: per sostituire desideri irrealizzati e irrealizzabili che vengono soddisfatti attraverso la fantasia supplendo alla mancata realizzazione nella vita quotidiana.
omeostatica: per appagare bisogni psicoaffettivi non esauditi, come il bisogno di sicurezza, di piacere a qualcun*, di sentirsi desiderat* e nutrire la propria autostima.
La focalizzazione sullo scenario, il luogo, il contesto delle fantasie erotiche, nasce dalla riflessione sulla totale assenza di cura di questi elementi nella pornografia mainstream, in cui l’attenzione è maggiormente puntata sulla prestazione degli attori e delle attrici, uno zoom continuo su elementi prevalentemente irrealistici: misure, intensità di azioni penetrative, dominazione maschile ed eiaculazioni voluminose. Crescere con questo immaginario impigrisce e contrae il potenziale immaginativo di cui abbiamo capacità smisurata ma con cui non abbiamo familiarità, perché tendiamo a far nostri scenari preconfezionati e a negarci questa possibilità sotto l’influenza dei tabù che vedono nella sessualità qualcosa di sbagliato e sporco. Per allenare l’immaginario è necessario ricontattare quello strumento magico che i bambini e le bambine utilizzano naturalmente per giocare, inventare, proiettarsi in ruoli adulti, in ruoli fantastici e così procurarsi ogni genere di piacere, consolazione, compensazione, mantenendo in circolo la propria energia creativa.
Le immagini che sono arrivate da chi ha partecipato al gioco sono state organizzate in categorie:
Paesaggi naturali
Atmosfere architettoniche
Spazi urbani, luoghi pubblici
Mezzi di trasporto
Dettagli su oggetti
PAESAGGI NATURALI
La netta predominanza di immagini che riportano luoghi naturali, dal mare ai boschi, fa pensare al desiderio di esprimere la propria parte istintuale e selvatica, un ritorno alla libertà e alla spontaneità nel vivere il rapporto con la natura e la nudità. In questo momento, forse, lo sguardo così predominante su luoghi lontani, come sottolinea il collega Davide Silvestri durante la diretta, può essere interpretato come un bisogno di uscire dalle proprie case dopo questi mesi di lockdown che hanno costretto le persone a vivere la propria intimità esclusivamente negli spazi domestici e che per alcune può aver rappresentato una totale sospensione dalla propria vita sessuale.
I paesaggi sollecitano l’ambientazione romantica e il risveglio dei sensi a contatto con gli elementi naturali. L’aria che accarezza il corpo, il contatto con la terra. L’elemento ricorrente nella maggior parte delle immagini è l’acqua, da osservare in vicinanza, da lontano o in cui immergersi. Possiamo vedere nell’acqua un ritorno alle origini, all’utero, al liquido amniotico nel quale abbiamo nuotato per 9 mesi e del quale ci siamo nutrit*, corpo a corpo. L’acqua è un mediatore, facilita la comunicazione tra i corpi, la fusione. Compone circa il 70 % del nostro corpo. È elemento principale della maggior parte dei lubrificanti, usati per facilitare i giochi erotici e le penetrazioni.
In alcuni scenari predomina il punto verso cui si guarda, cosa si può osservare dal luogo in cui si è scelto di ambientare le fantasie, sottolineando l’importanza di vedere il contesto in cui si è immers*, di guardare insieme, di proiettarsi e farsi dondolare dal luogo non solo come sfondo ma come culla che amplifica l’esperienza e la contiene.
Questa funzione di contenimento sembra essere svolta anche da chi sceglie dei luoghi che portano lo sguardo verso paesaggi naturali ma non rinunciano ai confort più domestici, come una piscina o una vasca idromassaggio posizionati in un luogo interno, più protetto e sicuro, che permette una vista su uno spazio panoramico. Questo aspetto di comodità e lusso che non rinuncia alla natura può essere letto anche nelle immagini che individuano il luogo delle fantasie in ambienti tipici di strutture ricettive attente al design e alla bellezza.
ATMOSFERE ARCHITETTONICHE
Compaiono poi ambientazioni legate a luoghi sacri, come piramidi e cripte, che segnalano un legame con la storia e la dimensione spirituale della sessualità, richiamando la connessione con un tempo sospeso, quasi al confine con il fantasy, il rapporto col mistico e l’oscurità, elemento che si presenta anche nei luoghi abbandonati, costellati di oggetti inutilizzati.
AMBIENTAZIONI URBANE
La presenza di luoghi nella città, nelle piazze, nelle strade, può indicare il gusto per il proibito e la trasgressione, fa riflettere sul desiderio di riappropriarsi dello spazio pubblico. Questo aspetto è fortemente legato al processo di riduzione della sessualità alla sfera privata che si consuma nelle stanze, nei cantucci familiari al di fuori dallo sguardo collettivo e di come storicamente si sia creato il concetto di osceno, scandaloso, quasi offensivo, per qualificare espressioni del corpo e atti vissuti in luoghi non comunemente deputati alla vita sessuale di giorno, ma che la notte, al buio, si trasformano in spazi per la prostituzione e il battuage in cui ricercare rapporti sessuali.
Locali pubblici che permettono di superare il confine del proibito, trasgredire, portarsi oltre il limite, come i bagni pubblici, i camerini di un negozio, il palcoscenico di un concerto. Ambientazioni che permettono contemporaneamente di mettere in scena, esibire la sessualità e giocare con il rischio di essere vist*. Questi aspetti possono essere letti come desideri di affermazione, forme narcisistiche funzionali ad un venir fuori e che richiamano a sperimentazioni identitarie tipiche dell’infanzia, come i bambini e le bambine che si spogliano improvvisamente per mostrare i propri genitali o il proprio corpo nudo, alzandosi la gonna o abbassandosi i pantaloni.
MEZZI DI TRASPORTO
Il rischio di essere scoperti e la trasgressione compaiono anche nella fantasia di avere rapporti nei mezzi pubblici, negli autobus o nei treni, in cui si può essere vist* da altre persone che viaggiano o dal* controllor*. Immaginarsi su un camion che va ad alta velocità richiama il bisogno di andare oltre il confine, l’atteso, l’ebrezza della velocità e della trasgressione.
DETTAGLI SU OGGETTI
Le ultime immagini portano l’attenzione su oggetti situati in spazi domestici, familiari, confortevoli. La musica che accompagna e accoglie i momenti di intimità e il calore romantico di un fuoco che brucia insieme a due calici di vino, in entrambi i casi il rosso che ricorda la passione e la fiamma che accende il desiderio, simboli e metafore fortemente presenti nell’immaginario sessuale della cultura occidentale.
La play list di immagini si conclude con il disegno realizzato da una follower che ambienta la sua fantasia in una strada sotto un lampione, riportando l’attenzione ancora una volta sulla dimensione pubblica, ma forse anche all’improvvisazione, alla sorpresa e al romanticismo di un momento non programmato, che asseconda una volontà estemporanea, in qualunque luogo ci si ritrovi, nel rispetto si sé e dello spazio che ospita l’incontro tra i corpi.
Concludo con le parole del collega Davide Silvestri:
le fantasie sono un luogo sicuro dove approdare ogni volta che vogliamo.
Dedichiamoci al nostro immaginario erotico, arricchiamo, espandiamo i luoghi della fantasia, con creatività, gioco e libertà.
Recentemente ho scoperto che esistono giornate mondiali e nazionali per ogni genere di professione, malattia, discriminazione, commemorazione. Il 5 maggio, oltre ad essere la giornata internazionale delle ostetriche (e degli ostetrici?) e dell’igiene delle mani, è la giornata nazionale contro la pedofilia. Un tema che genera sensazioni contrastanti, dall’incomprensione, all’indignazione, fino alla messa in discussione delle attuali pene previste dal codice penale.
La nostra cultura è imbastita di grandi miti sulla pedofilia, alcuni sono talmente pregnanti da generare il terrore genitoriale nell’educazione dei figli e delle figlie. Vediamone alcuni.
I pedofili hanno relazioni sessuali solo con bambin*, mai con adulti
Falso, nonostante manifestino una preferenza sessuale per bambin*, molti di loro hanno relazioni coniugali, spesso per ragioni di convenienza sociale
I pedofili scelgono le loro vittime a caso
Falso, generalmente conoscono i/le bambin* e hanno già fantasticato su di loro
I pedofili sono solo uomini
Falso, benché in minoranza, esistono anche casi di donne pedofile
Tutti i pedofili ricevono un trattamento terapeutico dopo avere scontato la pena in carcere
Falso, purtroppo la maggior parte di loro non riceve alcuna forma di trattamento.
I miti e le false credenze sulla pedofilia possono essere considerati funzionali alla stigmatizzazione dell’identità del pedofilo, inferiorizzata e resa deviante in virtù di specifiche regole morali, esattamente come l’uomo nero e l’orco cattivo, personaggi paurosi creati per impedire di andare in un luogo, fisico e simbolico. La figura del “pedofilo” rischia spesso di essere il paziente designato, quello che porta il peso del grande sintomo di una società sessuofobica che guarda solo alla punta dell’iceberg, alla manifestazione di un problema che poggia strutturalmente su una cultura moralista e continua a negare la dimensione erotico sessuale della vita. Di questo evitamento si ha prova osservando come le agende politiche dei nostri governi dimentichino sistematicamente di discutere dell’inserimento dell’educazione alla sessualità a scuola (nel 2014 l’Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BZgA ha definito gli Standard per l’Educazione Sessuale in Europa e predisposto una guida dettagliata alla realizzazione dei piani educativi per ogni fascia d’età).
Non si vuole negare la responsabilità di chi attua comportamenti pedofilici e abusi sessuali[1], ma riflettere su come puntare tutta l’attenzione sulla creazione di un nemico con toni sensazionalistici tolga risorse agli interventi di promozione della salute sessuale e della cultura della sessualità, fondamentali sia per prevenire comportamenti pedofilici quanto per potenziare le capacità di consapevolezza sessuale e autodeterminazione di bambini e bambine.
Un indicatore di questa tendenza a portare lo sguardo sulle conseguenze e non sulle cause strutturali di un fenomeno è rappresentato dall’etichetta di pedofilo e dalle accuse di istigazione alla pedofilia che nella storia hanno gravato su molti personaggi del mondo dell’arte e della musica, ma basta anche solo osservare l’abitudine linguistica ad usare la parola “pedofilo” come insulto o a scopo denigratorio, per esempio per deridere una persona che frequenta ragazz* più piccol*.
Egon Schiele: il mio arresto non è un malinteso!
Donna seduta con gamba sinistra piegata, 1917. Egon Schiele
Uno degli artisti a cui l’accusa di pedofilia ha segnato profondamente la vita è stato Egon Schiele, pittore e incisore esponente dell’espressionismo austriaco.
Uno sguardo devoto alla bellezza il suo, non per incorporarla e possederla, ma per espanderla, smaterializzarla dal corpo, imprimerla sulla tela. Uno sguardo non vorace, morboso o voyeurista, come alcune critiche sostengono. La bellezza che ritrae è vissuta non esibita, i corpi sono tratteggiati di sofferenze, tensione viscerale tra eros e thanatos. La sua è stata definita estetica del brutto. Schiele insieme a Kokoschka ha infatti inaugurato una nuova espressività individuando per primo una dimensione estetica del brutto. Non si può certo dire che i suoi corpi fossero mercificati e sessualizzati, eppure è stato arrestato per pedofilia.
Nel suo diario di Neulengbach racconta la sofferenza per i 24 giorni ingiustamente trascorsi in prigione, si dibatte per comprendere il motivo del suo arresto e cerca di ricostruirne i fatti. Qualche settimana prima del suo arresto Schiele con grande incertezza accolse insieme alla sua fidanzata una giovane vicina che cercava di scappare di casa lamentando le pressioni familiari. I due tentarono invano di convincerla a tornare dai genitori e cercarono di accompagnarla da una zia. Dopo qualche giorno il padre scoprendo che si era rifugiata nella casa dell’artista andò a riprenderla facendo partire un’indagine nei suoi confronti. L’arresto arrivò dopo qualche settimana a seguito di una visita della polizia che fece dei suoi disegni erotici prova per l’accusa di pedofilia.
<<I due poliziotti erano piombati inaspettatamente nel mio atelier, per controllare quello che stavo facendo. I genitori di alcuni bambini che avevo disegnato erano preoccupati. Qualcuno gli aveva suggerito la “preoccupazione”. […] Il gendarme disse con voce severa: “questi disegni sono osceni, devo portarli in tribunale. Le faremo sapere in seguito. Saputo non ho più niente, ma mi hanno messo in galera quei mascalzoni>>.
Per tutto il tempo della sua permanenza in carcere Schiele scrisse per cercare di ricostruire gli avvenimenti, esprimere il suo turbamento e comprendere cosa gli stesse accadendo.
Non sono stato arrestato a causa di una ragazzetta isterica, bensì perché indiziato di atti osceni con minori, con bambine, per aver eseguito disegni erotici, vale a dire osceni, che avrei mostrato ai bambini o comunque avrei negligentemente lasciato in giro fuori dalle cartelle. Insomma, finalmente so perché <<sono al fresco>>! È uno scandalo! Una grossolanità quasi da non credere! Che meschinità! E che enorme, enorme stupidaggine! È una vergogna per la cultura, una vergogna per l’Austria che a un artista possa accadere, nella sua patria, una cosa simile. Non lo nego: ho realizzato disegni e acquerelli che sono erotici. Ma sono pur sempre opere d’arte. Altri artisti non hanno forse dipinto quadri erotici? – Rops, ad esempio, ne ha fatti solo di questo genere. Ma nessun artista è stato messo in carcere per simili motivi.
L’artista sente e denuncia il pregiudizio verso il suo lavoro pittorico, non si capacita di come altri artisti abbiano ricevuto un trattamento differente pur facendo dei corpi erotici i soggetti principali delle proprie opere. Allo stesso tempo non comprende come un dipinto possa essere considerato osceno. Inoltre i suoi scritti rendono conto della forte resistenza culturale a considerare l’esistenza di una sessualità infantile. Proprio nei primi del 1900 lo psicanalista austriaco Sigmund Freud formulava le sue tesi sullo sviluppo sessuale infantile.
Nessuna opera d’arte erotica è una porcheria, quand’è artisticamente rilevante, diventa una porcheria solo tramite l’osservatore, se costui è un porco. […]. Dichiaro del tutto falso il fatto che avrei mostrato intenzionalmente a dei bambini tali disegni, che avrei corrotto dei bambini. È una menzogna! – Tuttavia so che ci sono molti bambini corrotti. Ma cosa significa poi “corrotti”? – Gli adulti hanno dimenticato quanto essi stessi erano corrotti da bambini, cioè stimolati ed eccitati dall’istinto sessuale? Io non l’ho dimenticato, perché mi ha fatto soffrire tremendamente. E credo che l’uomo sarà costretto a soffrire il tormento del sesso finché sarà sensibile allo stimolo sessuale.
Giovane donna – Egon Schiele
Quando l’arresto non è possibile, la censura interviene al suo posto.
È il caso più recente del pittore francese Balthus protagonista di una analoga accusa retrospettiva. Nel 2017 si è scatenata una polemica attorno al suo lavoro pittorico che ha portato al lancio di una petizione per richiedere la rimozione di “Thérèse dreaming”. L’opera contestata, realizzata dall’artista nel 1938, raffigurante una ragazzina in atteggiamenti “provocanti”, era in mostra al Metropolitan Museum di New York. La promotrice della petizione indignata sosteneva che l’opera fosse pornografica e incitasse alla pedofilia, ignorando che un’immagine per essere considerata pornografica deve presentare quantomeno elementi indiscutibili di eccitazione sessuale genitale.
Thérèse dreaming – Balthus
Il problema non è l’arte ma lo sguardo moralista con cui la si osserva.
Dire che un dipinto è capace di incitare alla pedofilia è come affermare che una donna che indossa la minigonna se l’è cercata e continuare a puntare lo sguardo sul soggetto e non sul pensiero dominante che indossa gli occhiali dei tabù anche per leggere l’arte.
La rappresentazione di un giovane corpo che esprime la propria sensualità racconta l’esperienza di scoperta che ogni adolescente attraversa durante il proprio sviluppo.
Approcciarsi alla sessualità attraverso l’arte erotica a scuola potrebbe spostare l’attenzione dal corpo erotizzato al corpo erotico, liberare le giovani generazioni dalla ricerca e condivisione compulsiva di materiale pornografico commerciale e sviluppare una sessualità libera dal dovere della performance, dall’ansia di dimostrare le proprie capacità, abbandonando le prescrizioni e pressioni a dimostrare, lasciando spazio al proprio sentire come guida nella ricerca e nella scoperta del piacere. La censura dell’arte erotica e della pornografia rischia di patologizzare l’espressione artistica e castrare la richiesta evidente di giovani adolescenti di sapere e vivere la scoperta dei corpi e della sessualità.
Approcciarsi alla sessualità attraverso l’arte fin dai primi anni di vita permette di contattare l’immagine di corpi erotici, non sessualizzati ma sensibili e vibranti, dove la nudità non è anelito della pornografia ma esperienza di purezza e pace con ogni parte del proprio corpo.
L’educazione alla sessualità anche attraverso l’arte sin dall’infanzia è il miglior strumento di prevenzione della pedofilia.
Egon Schiele
[1] La parola pedofilia è utilizzata per indicare persone adulte che hanno una particolare attrazione erotico-sessuale nei confronti di bambin* prepuberi, tale disturbo NON VA CONFUSO con l’abuso su minori. Molte persone pedofile non hanno la consapevolezza chiara di aver abusato sessualmente di un* bambin*. Spesso credono che la vittima possa ricavare piacere, che il suo comportamento abbia un valore educativo. Al contrario molti sex offender non sono pedofili, il loro intento è violare la vittima.
Bibliografia
Egon Schiele (1999). Ritratto d’artista. SE libri
Mottana P. (2019). Elogio delle voluttà per una gaia educazione sessuale. Trattarello incostante in spazi, soggetti e oggetti adibiti all’uopo. Mimesis
Ogien R. (2003). Pensare la pornografia. Tutti la consumano, nessuno sa cos’è. Isbn Edizioni
Quattrini F. (2015). Parafilie e devianza. Psicologia e psicopatologia del comportamento sessuale atipico. Giunti Edizioni
In questo periodo di restrizioni necessarie a contenere e gestire l’emergenza epdiemiologica COVID-19, molti professionisti e professioniste si trovano ad adottare delle modalità tecnologiche alternative alla stanza di psicoterapia.
Per chi ha già intrapreso un percorso è importante garantire una certa continuità senza interrompere il lavoro iniziato, l’elemento centrale di una psicoterapia è infatti la relazione che si viene a creare nel tempo tra il/la terapeuta e la persona, la coppia, la famiglia che va tutelata e mantenuta attivando ogni possibile risorsa. Il venir meno dello spazio che ospita la relazione in un momento che può essere cruciale per la terapia stessa rischia di alimentare le conseguenze psicologiche dell’isolamento forzato che di per sé le misure di sicurezza e la quarantena impongono. Lo stare in casa potrebbe essere vissuto come una vacanza, un’occasione per riposarsi e fare delle attività solitarie e introspettive che da tempo si rinviavano, ma è possibile che con il passare del tempo emergano vissuti di frustrazione, rabbia, vuoto, senso di sospensione della propria vita e incertezza sul futuro.
Per chi vive sol* può crescere un senso di solitudine e abbandono portando la persona a confrontarsi con parti di sé inesplorate nella quotidianità costruita su una routine sociale e lavorativa definita da orari e ritmi prevedibili.
Per chi invece vive con altre persone, partners, familiari, inquilin* la prossimità straordinaria può enfatizzare dinamiche relazionali e vissuti emotivi che possono rendere conflittuale e dolorosa la convivenza.
In entrambe le situazioni restare a casa impone un cambio di prospettiva, guardare ogni aspetto della propria vita da un’angolatura differente, portando informazioni e consapevolezze che prima non si vedevano e sentivano.
Portare avanti una terapia già iniziata precedentemente in studio avvalendosi degli strumenti di comunicazione on line, permette di tenere il filo del percorso iniziato, vivere la relazione terapeutica come spazio di condivisione, di lettura e significazione dell’esperienza personale e intima che la restrizione porta con sé, creando un ponte per proseguire e ritornare ad una nuova quotidianità una volta conclusa la fase restrittiva di emergenza.
Iniziare una nuova consulenza e psicoterapia può essere utile per elaborare l’esperienza che si sta attraversando, osservare le proprie reazioni e sensazioni, dare un contenitore protettivo alle paure e alle emozioni, riposizionando l’esperienza presente nel flusso del tempo.
Sono numerosi* i professionisti, le professioniste e i centri clinici privati che hanno deciso di fare la loro parte proponendo un servizio psicologico alle persone che sentono il bisogno di un sostegno, offrendo gratuitamente brevi colloqui psicologici individuali e sessioni di gruppo on line. Al momento non esiste una rete unica e coordinata a cui fare riferimento per usufruire di questi servizi, è possibile rivolgersi individualmente al/alla professionista più vicina per conoscenza e passaparola.
Faccio la mia parte
In linea con le iniziative nazionali faccio la mia parte offrendo un primo colloquio psicologico gratuito della durata di 30 minuti via Skype.
Le persone interessate possono contattarmi per un appuntamento via mail scrivendo a fadda.francesca@gmail.com.
Per chi sentisse il bisogno di proseguire con un percorso di consulenza e psicoterapia verrebbero applicate le tariffe ordinarie.
Permettiti di chiedere aiuto
Se provi timore, ansia, tristezza e credi che le tue emozioni siano tanto forti da non riuscire a gestirle permettiti di chiedere aiuto. Ricevere ascolto, poter avere un confronto e un sostegno, può aiutare ad alleggerirsi ed affrontare le situazioni con più serenità.