Perché uso l’asterisco?

I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo.
Wittgenstein

Ultimamente mi viene contestato l’uso di asterischi e chioccioline per la declinazione del genere all’interno dei miei testi. Raramente mi viene chiesto il motivo, più frequentemente mi si dice che è naturale usare il maschile in un determinato contesto professionale (mi è stato detto, per esempio, che nel mondo della cura dei capelli si usa comunemente “il parrucchiere”, sebbene esista nella lingua italiana il femminile del termine). Mi viene fatto notare che l’asterisco è antipatico perché nella lingua italiana è abitudine utilizzare il maschile, lasciando aperta la possibilità a chi legge di dare alla parola un’interpretazione maschile o femminile, oppure mi si dice che è un retaggio di un certo femminismo ortodosso (quale femminismo tra i tanti e diversi movimenti prodotti dalla storia?), oppure, ancora, senza troppe storie, si elimina semplicemente il mio asterisco come fosse un errore di battitura e lo si sostituisce con la declinazione maschile.

Alla base della mia scelta di inserire l’asterisco, la chiocciolina o, a costo di essere ridondante, di ripetere una parola al maschile e al femminile nelle note che scrivo, nei progetti, nei testi di promozione di eventi, negli articoli psicologici, c’è una precisa posizione maturata ed elaborata nel corso degli anni. Un percorso iniziato con gli esami universitari – dagli studi della psicologia delle differenze di genere al costruttivismo, dalla psicologia degli stereotipi e pregiudizi al costruzionismo sociale – e che, insieme ad altre esperienze formative, mi ha portata a ragionare su altri livelli di complessità, in termini di decostruzione di schemi sul genere, e, prima ancora, a prendere consapevolezza dell’esigenza primaria di lavorare su di me per riconoscere e smantellare ogni forma di sessismo presente nel mio linguaggio.

Ma riparto dall’asterisco, sul quale non scriverò nulla di nuovo che non si trovi su tanti altri blog o su linee guida redatte con le raccomandazioni dell’Accademia della Crusca, scaricabili liberamente e gratuitamente sul web.

L’asterisco è un espediente grafico che può essere usato in sostituzione alla desinenza per indicare la forma sia al maschile che al femminile e, in base all’intenzione di chi scrive, includere le forme che non rientrano in nessuna delle due. Può avere quindi una valenza inclusiva od omissiva a seconda di chi scrive e/o di chi legge.

Di norma io prediligo l’inclusività, e in alcuni casi scelgo e sento il bisogno di utilizzarlo per rivolgermi anche a chi non rientra per motivi biologici, psicologici e socio culturali nel binarismo maschile/femminile, mi riferisco in particolare alle persone intersessuali e transgender.
L’asterisco non è forse un abbraccio a sei braccia che accoglie ogni espressione del genere senza esclusione alcuna?asterisco_1

Che si tratti di evidenziare le differenze o l’uguaglianza tra i generi, questione molto dibattuta, l’impellenza, più che il diritto, mi pare rimanga quella di uscire dall’invisibilità linguistica adottando una revisione del proprio linguaggio. Questa operazione ha certamente delle conseguenze sull’efficacia comunicativa, estetica e stilistica del testo proposto.

La decisione di intervenire o meno su un testo richiede la consapevolezza di queste conseguenze e deve tenerne conto per cercare di salvaguardarne la leggibilità e comprensione, valutando di volta in volta testo e contesto e lasciando aperta la possibilità di usare il maschile inclusivo qualora diventi complessa l’esplicitazione delle forme maschili e femminili insieme, soprattutto nei testi molto lunghi.

Personalmente scelgo l’asterisco perchè, nonostante sia poco raccomandato dalle stesse linee guida per un uso non sessista della lingua italiana (Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana di Alma Sabatini, 1987) in quanto può ostacolare la lettura del testo, oltre a permettermi di adottare l’inclusività di cui sopra, nel suo richiamare la censura di parole poco raccomandabili, produce un effetto percettivo disturbante che vuole attirare l’attenzione proprio sull’effetto della censura del genere femminile.

Non è certo sufficiente inserire le forme femminili per decostruire il linguaggio sessista, ma credo sia necessario prendere consapevolezza di come il linguaggio che fluisce automaticamente nella nostra vita, attraverso il dialogo e l’interazione sociale quotidiana, contribuisce a creare la realtà.

Le parole non sono neutre, sottintendono un modo di percepire, sentire, pensare, essere ed esistere. Le parole hanno un grande potere sul nostro corpo, poichè attraverso la fonazione, l’ascolto, la lettura riescono a provocare dolore e malessere, ad attivare processi cognitivi ed emotivi, a creare specifiche dinamiche relazionali, identitarie e culturali.
Le conoscenze si formano, si esprimono e si trasmettono attraverso la forma verbale come costruzioni di significati condivise nell’interazione quotidiana, come rappresentazioni mentali convenzionali e socialmente condivisibili. Le espressioni verbali riescono a modellare le esperienze e possono essere usate a questo scopo per introdurre dei cambiamenti nelle rappresentazioni e negli schemi culturali ancora potentemente capaci di produrre pregiudizi, disparità e discriminazioni tra i generi.

Così mi piacerebbe che l’Ordine degli Psicologi fosse anche delle Psicologhe (il numero delle laureate in psicologia è maggiore rispetto al numero dei laureati, talvolta non servono statistiche, è sufficiente andare all’università per sentirsi in maggioranza e nonostante ciò essere chiamate studenti).

Mi piacerebbe che nella letteratura psicologica moderna, parafrasando Winnicot, si arrivasse a dire che non esiste un bambino, ma esiste anche una bambina. Che non esistono i figli, ma esistono anche le figlie, quindi esiste una prole.

E, in fin dei conti, se non si volesse usare lo sgradevole asterisco, basterebbe semplicemente rispettare la grammatica italiana, tenendo a mente che il femminile dei nomi segue uno schema ben preciso:

I termini -o, – aio/-ario, -iere -ere mutano in -a, – aia/-aria, -iera, -era:
M ragazz-o, giornal-aio, inferm-iere
F ragazz-a, giornal-aia, inferm-iera

I termini in -sore mutano in –sora, oppure formano il femminile dalla radice dell’infinito del verbo
corrispondente con l’aggiunta del suffisso –itrice, mentre i termini in -tore mutano in –trice e –tora:
M Aggres-sore, lettore, pastore
F Aggred-itrice, lettrice, pastora


Questo e molto altro ancora su:

http://questouomono.tumblr.com/
http://maschileplurale.it/cms/
http://insuafavella.blogspot.it/
http://comunicazionedigenere.wordpress.com/
http://lafilosofiamaschia.wordpress.com/biblioteca/

3 pensieri su “Perché uso l’asterisco?

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