Come parlo di LGBTQI+ alle persone adulte? non mi capiscono!

Negli ultimi mesi durante alcuni interventi sull’identità di genere fatti nelle scuole superiori e all’università, diverse persone hanno chiesto come potessero parlare alle figure adulte di argomenti come genere, identità, orientamento erotico sentimentale. Come si può ridurre il gap generazionale con genitori, parenti, insegnanti, medic*? Perché sembra un linguaggio incomprensibile? Perché si usano molte parole inglesi?

La prima questione su cui dobbiamo interrogarci riguarda i motivi per cui la comunità lgbtq+ si è dotata di una lingua che per molte persone risulta incomprensibile. Partiamo da un breve ma necessario riferimento storico, ci serve per comprendere.

La lingua lgbtq è l’espressione e il prodotto di una comunità che nel tempo si è dovuta dotare di dispositivi linguistici e culturali propri per garantire l’interazione e talvolta la sopravvivenza tra i suoi membri in ogni parte del mondo. Codici linguistici e parole segrete, note solo all’interno della comunità, nella storia lgbtq, hanno avuto la funzione di proteggere una popolazione da persecuzioni, attacchi e violenze e di definirne i confini per garantirne la sopravvivenza. Quando parliamo di comunità lgbtq ci riferiamo ad un gruppo o segmento della popolazione accomunato da alcuni tratti che sfuggono, contrastano, reinterpretano le norme su genere e sessualità nell’età contemporanea, ovvero quelle norme elaborate teoricamente nell’Occidente europeo e nordamericano tra il XIII e il XIX secolo, tradotte in pratiche concrete (legali, mediche, religiose, socioculturali) che ancora oggi regolano le nostre vite. Si tratta di una comunità non omogenea al suo interno, che presenta differenze e aspetti di conflittualità tra soggettività ed esperienze situate in contesti geografici e culturali diversificati. È una comunità immaginata e costruita: così come genere e sessualità non sono leggibili in termini di naturalità, ma sono costrutti sociali, anche le soggettività lgbtiaq+ non sono astoriche e naturali. Infine, la comunità è transnazionale e come tale formula strategie retoriche, politiche ed esistenziali per negoziare i propri spazi di vivibilità e visibilità. (1) Tra queste anche la produzione di una vera e propria lingua che in questo senso è creativa, costruita nell’interazione tra i membri, che ne condividono la varietà e le norme per l’uso.

Il ricorso a termini inglesi ha a sua volta diversi motivi, proprio perché la comunità è transnazionale alcune espressioni nascono da subculture localizzate ovunque nel mondo che però sono collegate tra loro e marcate da simboli che ne garantiscono la riconoscibilità e la possibilità di avvicinamento. Servono proprio a questo le bandiere, a marcare un territorio e comunicarlo all’esterno. Se entro in uno spazio in cui ci sono esposte delle bandiere, anche con un piccolo adesivo, so che in quel territorio posso parlare la mia lingua, che probabilmente quel luogo è abitato da persone che fanno parte della comunità a cui appartengo e in cui potrò sentire riconoscimento, rispetto e sicurezza.

L’uso di parole inglesi da parte delle giovani generazioni ha quindi una funzione di differenziazione identitaria ma anche di protezione: parlare in codice in un contesto che non accoglie, perseguita, aggredisce, garantisce la sopravvivenza! L’assenza nella lingua italiana di parole che si riferiscono a una realtà ci dice anche che per la nostra società parlante quella realtà è ancora invisibile. Ci si rende invisibili, si sta stealth, fuori dai radar, ancora una volta, per proteggersi, ma anche perché storicamente è avvenuto un processo di invisibilizzazione. Durante il fascismo, per esempio, in Italia fu adottata una precisa strategia di cancellazione del lesbismo basata sul silenzio, sul non nominare una realtà che fino a quel momento non aveva un referente linguistico in italiano corrente per essere nominata, in modo tale che le persone non potessero riconoscersi. Attraverso il silenzio le persone fuori della norma venivano portate al confino. A differenza del nazismo, il regime di Mussolini non promulgò nessuna legge proprio perché non se ne parlasse, in questo modo lesbiche e gay venivano fatti sparire, condannati alla non esistenza (2). L’uso e il non uso delle parole non è mai neutrale, le parole come creano la realtà possono anche nasconderla: quando nella nostra lingua ci mancano le parole per riferirci ad una esperienza che esiste è importante che ci chiediamo il motivo.

La storia delle soggettività trans sta attraversando oggi un momento di emersione e di visibilità accompagnata dalla condivisione, ricerca e produzione di parole per dirsi, per parlare di identità di genere, molte delle quali, ancora una volta, sono in lingua inglese, espressioni che sconfinano il binarismo di genere, che cercano il modo per nominare identità ed esperienze che non si riconoscono nelle uniche espressioni presenti nella lingua italiana di uomo e donna e che fino a poco tempo fa ricadevano nella parola ombrello “travestito”, o , se proprio andava bene, “travestite” (3).

Con questa premessa storico-sociale è forse ora più comprensibile il motivo per cui chi non appartiene alla comunità lgbtq+ e/o non si posiziona come alleat*, non ne comprende la lingua: non ne ha avuto bisogno, non è stato socializzat*.  La scuola, la famglia e le altre agenzie educative non insegnano la storia, i diritti, le esperienze delle persone lgbtq+, esattamente come per tanti secoli, e ancora adesso, è stata oscurata la storia delle donne, la produzione letteraria, artistica, scientifica fatta dalle donne.

Ma allora come si fa a parlare di LGBTQI+ alle persone adulte? Come fanno insegnanti, genitori, parenti, a imparare?

Si fa esattamente come se si stesse apprendendo una nuova lingua!

Vediamo alcune pratiche che possono essere applicate.

Stare in contatto comunicativo con la comunità di parlanti nativi di una lingua. Ascoltare le persone lgbtq+, esercitarsi a parlare con loro, fare domande, esprimere le proprie difficoltà. Le nuove generazioni, le giovani persone della generazione Z (nate tra il 1995 e il 2010), oltre ad essere native digitali, dialoganti e iperconnesse, sono trans e non binary native, come se avessero due lingue d’origine (le famose L1 ed L2), nel senso che hanno a disposizione in modo immediato, accessibile, facile e fruibile un bagaglio culturale e linguistico che prima degli anni 90 era nascosto e indecifrabile.

Le prossime si possono praticare individualmente, insieme alle giovani persone della vostra vita, in famiglia o anche in gruppo:

Leggere libri, blog, riviste, graphic novel, manga scritti da persone lgbtq+

Guardare serie TV, film, documentari su e prodotti da persone lgbtq+

Ascoltare pod cast e musica prodotta da persone lgbtq+

Partecipare a incontri, seminari, eventi organizzati da associazioni e attivist*

Per imparare una lingua è bene praticarla ogni giorno almeno per mezz’ora.

Se siete giovani persone dedicate da dieci minuti a mezz’ora quotidianamente per parlare con i vostri genitori, in modo semplice e diversificato, dosate pazienza e assertività, usate un linguaggio che renda comprensibile ciò che per voi è ovvio e scontato, ricordate che quando eravate bambin* ci avete impiegato almeno un anno a dire acqua e pappa, e due anni per imparare il nome delle persone che si sono prese cura di voi (da adulti ci vuole molto meno tempo per imparare un nome).

Se siete persone adulte dedicate da dieci minuti a mezz’ora quotidianamente per parlare con le giovani persone presenti nella vostra vita, che siano figl*, alliev*, o chiunque per qualsiasi motivo interagisca e abbia una relazione con voi. Aggiungete e/o alternate il colloquio con le pratiche sopra citate, considerate che mediamente una serie tv dura da 30 a massimo 60 minuti, una puntata di Transparent (4), dura da 29 a 31 minuti. Si può fare!

Tenete conto che potrebbero esserci delle resistenze all’apprendimento, ne vediamo alcune.

  1. Resistenze cognitive: imparare una nuova lingua da adulti è un po’ più difficile che farlo da giovani, ma non impossibile, si imparano nomi di calciatori e cantanti di tutte le nazionalità e in ogni lingua!
  2. Resistenze culturali: far parte di un gruppo sociale lontano della comunità ed essere cresciuti in una cultura in cui il genere è racchiuso nell’equazione “o sei uomo o sei donna” e le relazioni sono solo eterosessuali crea delle convinzioni e dei sistemi di valori che possono essere duri da ammorbidire.
  3. Resistenze psicologiche. Siccome tutt* abbiamo un genere, un’identità di genere, un’espressione di genere, un orientamento erotico-sentimentale, confrontarsi con altre possibilità può mettere in discussione la propria persona e la propria storia, può generare emozioni forti, di paura, vergogna, smarrimento, ma anche di sorpresa, gioia e curiosità.
  4. Resistenze relazionali: essere genitori di una persona lgbtq+, soprattutto se la sua identità di genere non combacia con le aspettative e con l’immagine che si è sognata per la piccola persona che si è messa al mondo, può rendere molto difficile comprendere, accogliere, integrare, ma non impossibile!

La soluzione sta nella relazione, create uno spazio che accolga le resistenze insieme al desiderio di stare insieme, conoscere, crescere e donarsi, le persone adulte ad un certo punto devono imparare da quelle giovani, nutrirsi di quel dono meraviglioso che attraverso il dialogo e il sentire insieme permette di scambiarsi esperienze, paure, desideri e condividere il fluire della vita.

Per le giovani persone, attenzione: se dopo tutte le attenzioni, le precauzioni, le cure notate che le resistenze permangono non insistete, per imparare una nuova lingua ci vuole motivazione, interesse, partecipazione attiva, curiosa e amorevole. Se queste componenti mancano, proteggetevi, coltivate tutte le altre risorse che avete a disposizione: creative, sociali, corporee, emozionali.

E quando parliamo abbiamo paura
che le nostre parole non verranno udite
o ben accolte
ma quando stiamo zitte
anche allora abbiamo paura

Perciò è meglio parlare
ricordando
non era previsto che sopravvivessimo.

Litania per la sopravvivenza. D’amore e di lotta: Poesie scelte di Audre Lorde

Bibliografia

  • Maya De Leo (2021). Queer. Storia culturale della comunità LGBT+. Einaudi
  • Nerina Milletti e Luisa Passerini (2007). Fuori della norma. Storie lesbiche nell’Italia della prima metà del Novecento. Rosenberg & Sellier
  • Porpora Marcasciano (2018). L’aurora delle trans cattive. Storie, sguardi e vissuti della mia generazione transgender. Alegre
  • Serie TV Transparent, regia di Jill Soloway (2014)

Sessualità in gravidanza? Un filo rosso che alimenta la conoscenza di sé

Pubblicato da http://www.ilclubdeigenitori.it

filo-rosso

La gravidanza e la nascita di un/a figlio/a sono eventi estremamente significativi del ciclo di vita individuale e della coppia. Un carico di aspettative, investimenti, emozioni e paure invade lo spazio vitale, attivando un processo di cambiamento e ridefinizione dei luoghi identitari e relazionali e una rinegoziazione di regole in numerose aree fisiche e simboliche. Ad essere perturbata è più di tutte la sfera della sessualità, ignorata dai servizi e ammantata di stereotipi e false convinzioni che ne impediscono una armoniosa e piena espressione in un momento estremamente importante della propria esistenza.
Se da un lato, infatti, osserviamo una crescente attenzione verso la maternità con interventi di preparazione al parto, dall’altra si riscontra una certa trascuratezza per l’intimità e la sessualità della coppia, tanto per la donna quanto per l’uomo. Secondo una ricerca del 2009 (Brtnicka) il 76% delle donne incinta esprime il bisogno di avere informazioni sulla sessualità nei consultori familiari e circa la metà dichiara di aver ricevuto informazioni insufficienti dal personale sanitario. Inoltre, mentre molte/i ginecologhe/i dichiarano di discutere di problematiche sessuali con le donne in gravidanza e nel post partum, i due terzi delle donne non ne ha alcuna memoria.
La carenza di informazione e la medicalizzazione ancora forte della gravidanza, hanno portato ad una sua desessualizzazione. L’associazione del momento della nascita al dolore allontana e nega la dimensione del piacere, mettendo in modalità di attesa l’esperienza intima della gestazione, per la coppia, per i singoli partner, per le mamme che si preparano alla creazione di una famiglia monoparentale.

Close up of loving pregnant couple on bed
Alla fine degli anni 70 un noto programma di ricerca condotto da Masters e Johnson ha dato il via ad una grande quantità di studi in tutto il mondo sull’influenza della gravidanza sull’erotismo e in particolare sulla risposta sessuale femminile, contribuendo a sfatare falsi miti e pregiudizi sull’attività sessuale durante la gestazione.
Alcuni tra i più diffusi stereotipi sulla sessualità in gravidanza sono ancora facilmente riscontrabili, in particolare quelli per cui le donne gravide perdono interesse per il sesso e non riescono ad avere orgasmi, insieme alla convinzione per cui il rapporto sessuale praticato nei primi mesi di gravidanza può essere pericoloso per il feto o ancora che gli uomini non dimostrano interesse sessuale per le donne incinte. Vale la pena menzionare anche quelli un po’ più fantasiosi e divertenti, come la credenza che lo sperma possa arrivare fino al bambino che lo userà come nutrimento o che fare l’amore in gravidanza indurrà il nascituro ad avere un maggiore desiderio sessuale (Panzeri, Donà, & Cusinato,2006, p. 2).
La maggior parte degli studi converge nel dimostrare, in maniera più o meno accentuata, differenze tra i tre trimestri della gravidanza nella vita sessuale, valutandone la qualità in riferimento ai diversi parametri della funzione sessuale: desiderio, eccitazione orgasmo, soddisfazione e frequenza dei rapporti.
Nel primo trimestre l’erotismo e l’efficienza nell’attività sessuale risultano molto variabili, ma complessivamente si assiste ad un calo notevole del desiderio e della frequenza dei rapporti. L’erotismo, minimo o inesistente, lascia spazio alle preoccupazioni per il/la nascituro/a e al prendere confidenza con i primi cambiamenti fisici, ormonali ed emotivi. Un insieme complesso di fattori concorre nel determinare la percezione di una ridotta attrazione per il/la partner e una diminuzione dell’eccitabilità sessuale.
Le cose iniziano a cambiare all’inizio del secondo trimestre con un migliore stato di benessere, dovuto al venir meno delle nausee e dei disturbi somatici, al miglioramento dell’umore e all’elaborazione emotiva della gravidanza. Un nuovo equilibrio psicofisico sembra risvegliare l’erotismo con un aumentato interesse per l’attività sessuale, sia per il coito che per l’autoerotismo, e una maggiore facilità e frequenza nel raggiungimento della fase orgasmica, dovuta, probabilmente, anche ad un aumento della secrezione lubrificante vaginale (legata ad una maggiore congestione venosa del canale vaginale), che si presenta proprio a partire alla fine del primo trimestre e permane per tutto il resto della gravidanza.
Nel terzo trimestre si verifica nuovamente una riduzione notevole dell’attività sessuale, dovuta presumibilmente sia a fattori fisici, come l’aumento di peso e i cambiamenti nella fisiologia vaginale, e psicologici, legati soprattutto alle preoccupazioni e alle paure ispirate all’avvicinarsi del parto. Spesso sono i medici a vietare i rapporti sessuali in questa fase e per i tre mesi successivi alla gravidanza, una proibizione che genera malcontento se non supportata da una valutazione soggettiva della situazione di salute della donna e da una corretta informazione alla coppia. Sembra infatti esserci una correlazione forte tra il grado di informazione della donna da parte dal ginecologo e il suo piacere sessuale in gravidanza, questo vale anche per il partner, che se coinvolto vive con meno frustrazione la prescrizione di continenza, comprendendone le motivazioni, e vive con una maggiore partecipazione attiva il percorso della gravidanza.
Dopo la nascita la ripresa dell’attività sessuale è molto lenta, tra le spiegazioni più frequenti vi sono la stanchezza e il senso di debolezza, i dolori durante il coito, l’irritazione della vagina e il timore che i rapporti possano danneggiare il fisico. Il parto cesareo sembra influire molto meno rispetto a quello naturale con episiotomia, infatti la guarigione del perineo e i dolori che ne derivano possono rappresentare un freno reale alla ripresa dei rapporti sessuali. Sembra che l’allattamento abbia invece un ruolo acceleratore del risveglio dell’interesse sessuale, l’argomento è ancora avvolto dal pregiudizio, ma molte donne raccontano di essersi sentite stimolate dalla suzione. In generale, entro le prime sei settimane e due mesi dal parto, tutte le funzioni sessuali possono riprendere l’andamento che avevano precedentemente. La qualità della sessualità prima del concepimento ha un’influenza rilevante durante l’intera gravidanza e nella ripresa dell’intimità dopo il parto.
Nel tempo che precede e attraversa la gestazione è di grande importanza portare l’attenzione sulla comunicazione all’interno della coppia, promuovere uno scambio continuo che sviluppi una consapevolezza reciproca dei propri vissuti intimi, mantenere attivo il legame erotico anche quando, naturalmente o per sopraggiunte condizioni mediche, richieda di essere allentato. Creare uno spazio di condivisione e contatto, in cui in maniera creativa si possano sperimentare fantasie ed effusioni, permette di vivere in maniera più armoniosa e sana la relazione, allenando i muscoli emotivi al raggiungimento di un nuovo equilibrio tra intimità e genitorialità. Nutrire questo spazio permetterà un allargamento funzionale e graduale del sistema relazionale, facendo in modo che il/la figlio/a prenda posto nel suo nido senza che questo occupi la casa simbolica della coppia e lo spazio delle identità.
Come nella leggenda giapponese del filo rosso, la sessualità può diventare quel cordoncino da tenere stretto durante la gravidanza, quale simbolo di una ricerca che alimenta la conoscenza di sé, il contatto con la propria parte più profonda, la vicinanza emotiva ed intima con la persona con cui si è scelto, se lo si è scelto, di condividere uno dei passaggi evolutivi più delicati del proprio cammino. Il filo rosso legato al mignolo non è visibile, ma è molto lungo e indistruttibile, si aggroviglia e crea intrecci che possono mettere alla prova chi tiene i due capi. In un gioco di tensioni e rilasci, ogni singolo groviglio sciolto rappresenta il superamento di un ostacolo, ogni nodo districato il rafforzamento del legame.

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Bibliografia

Brtnicka H., Weiss P., Zverina J. (2009). Huan sexuality during pregnancy and the post partum period. Batisl Lek Listy, 110 (7): 427 – 31.

Carta S. (1996). Via familiare. Strutture, processi, conflitti. Milano, Giuffrè Editore

Coluccini F. (2016). La sessualità in gravidanza. Un progetto di educazione sessuale per coppie in attesa. Rivista Elementi di sessuologia

Masters, W., & Johnson, V. (1967). L’atto sessuale nell’uomo e nella donna. Milano, Feltrinelli

Panzeri, M., Donà, M.A., Cusinato, M. (2006). La sessualità della coppia nel ciclo di vita familiare. Rivista di Sessuologia, 30, 93-97.
Piu F. (2008). Gravidanza e sessualità. Tesi di specializzazione Istituto Italiano di Sessuologia Roma
Zagaria L. (2016). Dalla diade alla triade. Variazioni e ripercussioni sulla vita sessuale di coppia. Tesi di specializzazione Istituto Italiano di Sessuologia Roma

 

Dalla maternità surrogata al progetto procreativo relazionale

Polaroid Photos of an Newborn Infant and Pregnancy Shots Hanging on a Rope With Clothespins

Polaroid Photos of an Newborn Infant and Pregnancy Shots Hanging on a Rope With Clothespins

La maternità surrogata è un tema molto delicato di cui si è ampiamente parlato nell’ambito dibattito pubblico durante il periodo di approvazione della legge sulle unioni civili, compiendo talvolta l’errore grossolano di confonderlo con l’istituto della stepchild adoption* . La maternità per surrogazione ha generato dei posizionamenti molto netti, ma, data la sua complessità, schierarsi per un SI o per un No è sicuramente poco utile alla comprensione di tutti gli aspetti coinvolti sul piano etico, socio-politico, economico e psicologico.
Il fenomeno è conosciuto da tempo, in passato avveniva nel silenzio e si realizzava prevalentemente nell’ambito dei rapporti interpersonali, ricorrendo, per esempio, all’aiuto di una sorella che metteva a disposizione 9 mesi della sua vita per permettere all’altra di realizzare il proprio desiderio di maternità, ma ancora nessuno poteva incidere sulla libertà di procreare.

Oggi assume connotazioni molto diverse. Con l’aiuto della medicina, e soprattutto con l’avvento delle nuove tecnologie, questa pratica è diventata un fenomeno pubblico e la giurisprudenza ha iniziato a interrogarsi sulla sua disciplina. In molti paesi, come in Italia, è vietata, in alcuni non è disciplinata, in altri è invece regolamentata con leggi specifiche che definiscono vincoli e modalità.

La maternità surrogata o per sostituzione, detta anche gestazione per altri o gestazione d’appoggio – la stessa scelta delle parole denota la complessità della questione – può essere totale o parziale. Nel primo caso la donna non ha alcun rapporto genetico con l’embrione che crescerà ma mette a disposizione solo il proprio corpo per la gestazione; nel secondo caso anche gli ovuli.
Lo scopo della surrogazione può essere economico o di solidarietà. I motivi possono essere diversi:
– Incapacità gestazionale (infertilità, sterilità)
– Coppie same-sex
– Malattia della madre tale per cui una gravidanza potrebbe aggravare lo stato di salute
– Donna che non vuole modificare il proprio corpo (aspetto più teorico e meno riscontrabile nella realtà).

Il dibattito sulla maternità surrogata si concentra principalmente sulle seguenti obiezioni:
– Un terzo viene intromesso nei rapporti di coppia (in senso dispregiativo), violando il patto di fedeltà e mettendo a rischio l’unione familiare (questa obiezione è caduta in disuso).
– Violazione della dignità della donna considerata strumento dei desideri altrui.
– Sfruttamento della donna surrogata: danno a carico di una donna più forte per il desiderio delle donne che vivono in situazioni disagiate
– Il legame madre-bambino/a viene reciso alla nascita
– Costi elevati.

Non essendo questo il contesto per affrontare tutti gli aspetti legati alle obiezioni appena riportate, ci si limiterà a proporre delle riflessioni sulle dinamiche relazionali che si creano tra le figure coinvolte nel processo di surrogazione.

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Fotogramma Film “La Balia” di Marco Bellocchio del 1999

Prima di prendere qualsiasi posizione è necessario porsi alcune domande.

Chi è la madre? Madre genetica e madre sociale possono essere diverse?
Che tipo di legami familiari si vengono a creare tra la madre genetica, il figlio o la figlia, e i genitori sociali?

Nell’esperienza della madre biologica e/o genetica manca il desiderio di maternità, è assente il progetto, il pensare il figlio dopo la nascita: la donna sa già che genererà un figlio non per se stessa ma per altri.
La madre genetica può per certi aspetti essere paragonata al padre, che per ragioni biologiche non porta il figlio nel suo grembo ma ne diviene a pieno diritto genitore. La genitorialità infatti inizia molto prima della gestazione e sono diversi gli elementi che concorrono nel definire la scelta di dare vita ad un figlio, potenzialmente descrivibili in fasi, che vanno dalla sperimentazione del desiderio genitoriale fino alla definizione e appropriazione del ruolo genitoriale.
I genitori all’interno di una coppia o il singolo genitore che sceglie di dar vita ad un figlio senza partner, desiderano, accolgono, pensano, progettano la propria vita, con un impegno – personale, emotivo, economico. Tale progettualità è in grado di creare, accanto a quel luogo corporeo nel quale prenderà vita il feto, uno spazio affettivo, un nido simbolico, che predispone all’accoglienza del figlio creando le radici del legame molto prima della nascita.
Da un punto di vista relazionale è fondamentale considerare il sistema all’interno del quale il bambino viene pensato e generato. Un sistema che va ampliato e allargato nella sua rappresentazione e configurazione, come accade nelle famiglie ricomposte.
La madre surrogata partecipa al processo procreativo senza assumere l’identità genitoriale che ne fa il “proprio” figlio o la “propria “figlia”. I genitori intenzionali partecipano pienamente alla relazione con il figlio attraverso la madre surrogata. L’attaccamento della madre verso il feto è multidimensionale e chiama in causa aspetti diversi per la gestante e per i genitori intenzionali, nel primo caso infatti l’attaccamento subisce un processo diverso perché manca la preoccupazione per il futuro del feto, proiettata sui genitori intenzionali, autori del progetto procreativo.
Il riferimento alla madre surrogata, la cui presenza può essere reale o simbolica, che in termini giuridici si configura nel diritto alle origini, permette la legittimazione di una memoria biologica, quell’esperienza primordiale del feto all’interno dell’utero che va riconosciuta e valorizzata nei racconti della sua nascita, negandola e recidendola si rischia di creare un tabù, un segreto, un vuoto narrativo nello sviluppo cognitivo, emotivo e relazionale. Non va sottovalutato infatti l’impatto dell’espressione emotiva non verbale, che passa attraverso il silenzio rivelatore e linguaggio del corpo, i non detti hanno spesso un potere maggiore delle parole.
È di grande importanza riconoscere nella storia familiare la figura della madre surrogata e inserirla nella rappresentazioni genealogiche attraverso fiabe e metafore che progressivamente si arricchiscono di informazioni sempre più comprensibili al figlio in base all’età.
Il ritratto familiare che viene così dipinto non differisce da quello che si realizzava quando i bambini venivano dati a balia alla nascita o da quello che prende vita dalle famiglie che attraversano una ricostituzione, in seguito a separazioni e ricomposizioni. La crescita e lo sviluppo richiedono relazioni affettive di qualità, senso di appartenenza, cura dei legami.

Ci sono due lasciti durevoli che possiamo dare ai nostri figli e alle nostre figlie. Uno sono le radici. L’altro sono le ali.
Hodding Carte

Note

  • La stepchild adoption è il meccanismo che permette ad uno dei membri di una coppia di essere riconosciuto come genitore del figlio, biologico o adottivo, del compagno o della compagna.
  •  Quando si parla di coppia si fa riferimento all’unione di due persone di sesso diverso o dello stesso sesso che intrattengono una relazione, sia essa di fatto o legalmente riconosciuta dall’istituto delle unioni civili o del matrimonio. Attualmente il 90% delle coppie che ricorre alla surrogazione è eterosessuale.
  • L’uso alternato al maschile e al femminile dei termini figlio e figlia è stato scelto esclusivamente per motivi di praticità linguistica.

L’articolo nasce da riflessioni e appunti di viaggio presi durante la II edizione dell’International Summer School on Gender Studies 2016 – Le nuove frontiere del diritto e della politica. Questioni LGBT – UNIMC Università di Macerata

Note bibliografiche
Corti I., 2000. La maternità per sostituzione. Giuffrè
Ferrari F., 2015. La Famiglia Inattesa. I genitori omosessuali e i loro figli. Mimesis. Frontiere della psiche.
Gambini P., 2007. Psicologia della Famiglia. La prospettiva sistemico-relazionale. Milano, Franco Angeli

 

Essere fertili non vuol dire diventare madri!

Il mio ruolo procreativo non ha trovato spazio nella mia vita e per questo sono spesso tagliata fuori dai discorsi sui pannolini, l’asilo, le pappe. Il mio orologio biologico non ha una sveglia, non ne vuole proprio sapere di suonare e ricordarmi che è arrivato il momento che anche io entri nel club delle mamme.

Oggi però  ci pensa il Ministero della Salute a sostituirsi al mio corpo e farmi da sveglia, vuole avvisarmi che sono indietro, incompiuta, poco devota alla sopravvivenza della specie umana!

Ancora una volta è necessario ribadire con forza che la maternità non è un percorso obbligato. Il ruolo procreativo non trova spazio nella vita di tutte le donne, l’orologio biologico non suona necessariamente per tutte. Quell’istinto materno così bramato e rivendicato potrebbe non farsi mai sentire durante l’esistenza, senza andare per questo ad intaccare l’identità e la possibilità di una piena realizzazione personale e sociale. Tante  sono infatti le strade e le modalità per definirsi, costruirsi, viversi nella propria completezza.

Quando una donna sceglie di non avere figli/e viene giudicata, la sua scelta viene letta e pesata come una esautorazione da un compito quasi obbligato, “ha preferito la carriera ai figli, al suo ruolo di madre, la vita lavorativa a discapito di quella personale”, si, per molte e da una prima lettura può essere visto in questo modo ma possiamo pensare che ci sia dell’altro, che quel preferire la carriera non sia una rinuncia, uno scarto, ma un’azione consapevole fondata sul proprio desiderio di sviluppo personale, di far emergere talenti, valori, potenzialità.

Eppure ancora oggi permane una forte pressione a misurare i fatti della vita secondo una serie di tappe precostituite che vedono fondamentale nella vita femminile il momento della creazione e che sembrano rendere inscindibile la cosiddetta “femminilità” dalla generatività.

Secondo l’ISTAT tra le donne nate nel 1970 il 20% non avrà figli/e alla fine del percorso riproduttivo, contro il 13% per le generazioni del 1960 e del 1940. La maternità non rappresenta più una dimensione fondamentale nella costruzione dell’identità, e, spesso, il bisogno di diventare madri è il risultato di aspettative e pressioni sociali e familiari che continuano a rinforzare quell’immaginario di femminilità che lega indissolubilmente la donna al materno. Molte donne non desiderano diventare madri ma avere una gravidanza, bramano quell’esperienza del corpo e del possesso di un figlio proprio, ma probabilmente la loro vita avrebbe funzionato anche senza un figlio.  Altre volte il desiderio è dissociato dall’esperienza procreativa e si trasforma in disponibilità all’adozione, dando priorità alla volontà di crescere un figlio o una figlia.

Il mio istinto è molto preciso nel merito: un figlio non lo voglio. I miei amici, quando mi vedono coi bambini, dicono che sarei una madre bravissima. Ma io non credo. I bambini mi piacciono, ma a piccole dosi. Se ci fosse una telecamera dell’anima che proiettasse su uno schermo quello che provo quando vedo un bambino che fa i capricci… non si può dire. Mi sento un mostro, solo a pensarlo. Trovo che il pianto isterico di un bambino sia la cosa meno tollerabile del mondo.” Alessia

Nella specie umana l’istinto materno non è biologicamente determinato ma è il risultato di una complessa interazione tra fattori corporei, psicologici, culturali e sociali.  Il fatto che le donne siano predisposte biologicamente alla procreazione non implica che lo siano anche  al desiderio di maternità e all’esercizio del ruolo materno, un vestito socialmente e culturalmente costruito che si modella alla persona che sceglie di indossarlo. Conoscenze, competenze, comportamenti, atteggiamenti definiscono il ruolo di cura, sia esso materno o paterno, ma si sviluppano nel corso della vita e dell’esperienza attraverso  processi di apprendimento.

Essere fertili non implica obbligatoriamente diventare madri, essere donne non significa avere istinto materno, il corpo e la sua sessualità sono due condizioni che possono incrociarsi per produrre una nascita, ma anche convivere serenamente lontano dalla riproduzione.

Non ho nessun desiderio di procreare eppure sono in cerca dell’amore . Procreazione. Una super-rifinita sala da pranzo stile Queen Ann a prezzo stracciato. Legno vero. È questo che voglio? La famiglia modello, due più due nel kit di montaggio di una comoda casetta. Non voglio il modellino, voglio l’originale in dimensioni reali. Non voglio riprodurmi, voglio fare qualcosa di completamente nuovo.

Jeanette Winterson, Scritto sul corpo

 

Alcune letture ispiratrici

Cirant E., Una su cinque non lo fa. Maternità e altre scelte

De Beauvoir S.. Il Secondo Sesso

Di Pietro A., Tavella P., Madri selvagge, contro la tecnorapina del corpo femminile.

 

L’ho lasciato perché non avevo più spazio per me – Geografia delle relazioni

Una delle motivazioni più citate quando si decide di chiudere un rapporto sentimentale è associata alla mancanza di spazio per sé, alla sensazione di soffocare nella coppia, di aver perso di vista se stessi/e e di aver bisogno di ritrovarsi. Utilizzando la metafora della mappa geografica è possibile riflettere sulla particolare modalità con cui, quando entriamo in relazione, organizziamo gli spazi reciproci e individuali e ne definiamo i confini, incappando spesso in situazioni di stallo.

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La coppia può essere considerata il terreno più fertile per coltivare e nutrire la propria personalità, un luogo dove sono possibili lo scambio autentico, il confronto, la crescita, dove i problemi diventano opportunità evolutive che coinvolgono l’intelletto, il corpo, fisico ed emotivo, e l’interiorità.

Che si configuri come unione di fatto, civile o religiosa, la relazione assume una sua specifica geografia: definisce un suo nucleo, ne stabilisce i confini con l’esterno e contemporaneamente richiede ai suoi componenti di inoltrarsi in spazi interni, selvaggi e inesplorati, di tracciare ciascuno il proprio territorio, imparando a rispettare e non invadere quello dell’Altro o dell’Altra, per abitare insieme il Noi.  Le trame relazionali tuttavia possono assumere forme differenti e mutevoli spesso incomprensibili.

Quando nella coppia si ha la sensazione di non avere più nulla da dirsi probabilmente i confini del Noi si sono sovrapposti a quelli individuali invadendoli, oppure, al contrario, gli spazi individuali si sono talmente distanziati da abitare sempre meno il Noi fino ad arrivare a lasciarlo vuoto.

A seconda della fase di sviluppo della coppia, delle particolari dinamiche relazionali, che si creano nell’incontro e che, talvolta, ripropongono schemi e modalità apprese nella famiglia d’origine, e dei ruoli che si assumono all’interno della stessa coppia e famiglia (compiti domestici, cura di figli/figlie),  possiamo idealmente immaginare tre configurazioni geografiche della coppia: fusionale, distaccata, integrata.

La coppia fusionale

La relazione è simbiotica, si caratterizza per una sovrapposizione tra lo spazio dell’Io e quello del Tu, i confini si confondono, il noi prevale sugli spazi identitari: la coppia emerge e predomina rispetto alle personalità dei partner. C’è confusione tra i bisogni propri e quelli dell’altro/a e una forte tendenza alla dipendenza affettiva. Entrambi i componenti della coppia conoscono e sembrano condividere e far propri i sentimenti, i pensieri, le fantasie, i sogni l’uno/a dell’altra/o.

La vicinanza fisica ed emotiva è talmente forte da provocare ansia e disagio con  il rischio che il sé dell’uno/a venga incorporato nel sé dell’altro/a. Le differenze sono annullate e la conflittualità viene vista come una minaccia alla coppia.

La coppia distaccata

La coppia non risponde più ai desideri e ai bisogni di uno o di entrambi i componenti che smettono di nutrire la relazione senza riuscire a separarsi. Si investe maggiormente fuori dalla coppia, nel lavoro, nelle relazioni amicali, nello sport, in hobby apparentemente non condivisibili, o in un altro rapporto erotico sentimentale. La coppia non rappresenta più uno spazio in cui potersi rispecchiare e trovare nutrimento per la propria identità. La distanza fisica e/o emotiva può essere tale da generare rifiuto e ostilità tanto che i due partner possono percepirsi repellenti. Il rifiuto può riprodursi per mesi, anni, o una vita intera.

La coppia integrata

Lo spazio della coppia non invade i territori personali, nutre la relazione e le singole identità in maniera equilibrata e rispondente ai reali bisogni di entrambi i partner. La distanza è funzionale ad un rapporto equilibrato, i confini sono flessibili e adatti alla negoziazione degli spazi reciproci e condivisi.

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[Illustrazione\Psiche di Bebbe Giacobbe]

Questi tre modi di funzionare non sono statici ma possono essere considerati come fasi cicliche che periodicamente la coppia attraversa. In alcune coppie la relazione può ruotare a intervalli con alta frequenza, in altre può rimanere relativamente fisso per lunghi periodi. Il bloccarsi su una modalità distaccata o fusionale per tanto tempo può essere fonte di malessere, può portare ad una crisi più o meno importante del rapporto, alla sua rottura, allo sviluppo di un sintomo per tenere unita la coppia o al coinvolgimento di una terza persona nella dinamica relazionale, un figlio, una figlia, un famigliare o un amante.

Quando la mappa diventa troppo rigida, attraverso un processo di consapevolezza, si può imparare a distaccare e ridefinire gli spazi fisici ed emotivi, disegnando una nuova geografia della relazione che offra un adeguato spazio di autonomia e differenziazione ad entrambi, in cui coltivare passioni e interessi individuali, riuscendo anche a vivere spazi condivisi che coinvolgano la coppia in attività e momenti rivitalizzanti, per riscoprirsi e reinventarsi. Contemporaneamente, quindi, va definito un luogo sicuro per la relazione, capace di accogliere le differenze, le tensioni e le conflittualità che possono naturalmente sprigionarsi quando l’identità dei singoli inizia ad avere uno spazio di espressione sufficientemente differenziato.

Prima di scappare nell’illusione che si conosca ormai tutto dell’altra o dell’altro e che non si abbia più nulla da dare e ricevere, si può provare a rivedere la mappa della relazione, riprendere gli spazi personali reciproci e condividere questo processo nella coppia, scoprendo di avere ancora tanto da esplorare. Il tango argentino può essere, per esempio, una buona terapia di coppia per imparare a comprendere e gestire le dinamiche legate a spazi, distanze e confini. aldo-sessa-tango

Si dovrebbe imparare a stare abbastanza vicini per mantenere saldo il legame e abbastanza lontani per mantenere integra la propria coerenza identitaria.

Rimane pur sempre la grande possibilità di scoprire che ci si può lasciare senza rischiare di svuotare il proprio spazio.

Amatevi reciprocamente, ma non fate dell’amore un laccio:

lasciate piuttosto che vi sia un mare in moto tra le sponde delle vostre anime.

Cantate e danzate e siate gioiosi insieme, ma che ognuno di voi resti solo,

così come le corde di un liuto son sole benché vibrino della stessa musica.

Datevi il cuore, ma l’uno non sia in custodia dell’altro.

Poiché soltanto la mano della Vita può contenere entrambi i cuori.

E restate uniti, benché non troppo vicini insieme:

poiché le colonne del tempio restano tra loro distanti,

e la quercia e il cipresso non crescono l’una all’ombra dell’altro.

K. Gibran