La trappola dell’accettazione

Qualche giorno fa, mentre parlavo senza filtri di una parte del mio corpo –  il dettaglio anatomico è irrilevante – mi è sgattaiolato tra le labbra un automatismo linguistico che mi ha portata a dire con tono sommesso: accetto quella parte del mio corpo!  Mentre pronunciavo queste parole credo di aver storto il naso e creato un nodo nella bocca del mio stomaco, producendo un fastidio amaro capace di tenermi in riflessione per quasi una settimana sul significato dell’accettazione.

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La maggior parte delle volte che utilizziamo la parola accettazione siamo in una modalità espressiva giudicante, verso noi stessi/e o un’altra persona, attraverso la quale creiamo una forma gerarchica in cui chi o ciò che accettiamo non è posizionato al nostro livello, ma è collocato in uno spazio separato, confinato, sotto il nostro controllo.  Nonostante i due concetti siano spesso differenziati, accettare può significare tollerare qualcosa di cui si riconosce l’esistenza, a cui diciamo “tu puoi stare qui, ma stai al tuo posto” per renderlo invisibile, neutralizzarlo, depotenziarlo. La dinamica dell’accettazione si costruisce attorno all’asimmetria di potere: alla possibilità di accettare di una persona o un gruppo corrisponde una contropartita per cui qualcuno dovrà essere accettato. Spesso chi ha la possibilità di accettare è legittimato da una norma che in un contesto specifico lo autorizza a esercitare quel potere di far passare o meno l’Altro/a.

Prendiamo un esempio molto semplice. Quando ci rivolgiamo ad un servizio sanitario ci viene richiesto come utenti di passare in accettazione. Per poter accedere ad una prestazione medica dobbiamo sottoporci al giudizio di un’altra persona che valuta se abbiamo il diritto di oltrepassare il confine oppure no, se possiamo usufruire di una esenzione o dobbiamo corrispondere un ticket. Chi accetta è posizionato al servizio di una norma che lo autorizza ad accettare o meno. Questo dispositivo, virtuosamente costruito per generare ordine a favore di un principio organizzatore, produce relazioni gerarchiche in cui la distribuzione del potere è fortemente squilibrata. Non è un caso che molte istituzioni pubbliche e servizi privati  abbiano iniziato a chiamare gli sportelli, piuttosto che di accettazione, di accoglienza.

Lo stesso principio degli sportelli di accettazione si realizza in ogni sistema relazionale, nei rapporti sociali tra gruppi, interpersonali e affettivi, così come nei processi intrapsichici, ponendosi come elemento portante di esperienze conflittuali e talvolta discriminatorie.

Espressioni come accetto il mio collega di lavoro omosessuale, accetto la mia vicina di casa rumena, accetto che mia moglie esca da sola con le amiche sottintendono una concessione di permesso, equivalgono a dire: anche se sei omosessuale, rumena, donna, ti concedo di esistere accanto a me, ma io mi elevo almeno ad un rango superiore, in quanto eterosessuale, italiano, uomo. Questa possibilità è garantita da norme culturali e socialmente sostenute, non solo da chi le promuove attivamente ma anche da chi non ha alcun pensiero al riguardo e le da perciò per assodate, scontate, ovvie, normali. Tali norme fondano la loro efficacia attraverso la creazione di dualismi proposti come naturali: eterosessuale/omosessuale, italiano/rumeno, marito/moglie. L’accettazione ha un retrogusto amaro di paternalismo, richiama quell’insieme di gesti messi in atto da chi disponendo di un potere decide arbitrariamente di concederlo ad altre persone, a condizione che lo esercitino entro limiti ben definiti e sotto stretto controllo.

Il carattere subdolo dell’accettazione governa silenziosamente anche l’intimo rapporto con sè stessi. Quante volte ci sentiamo dire e ci diciamo che dobbiamo accettare i nostri difetti o una malattia? Che siano caratteristiche fisiche o aspetti legati alla personalità, i cosiddetti  difetti diventano tali quando, sottoposti al confronto di una norma, se ne discostano. Un naso può diventare difettoso quando messo a rapporto con un modello,  normativo appunto, che definisce lunghezza, linee, apertura delle narici, intensità di peluria, non supera la prova del confronto e quella differenza viene trasformata in un ostacolo da normalizzare con un intervento di chirurgia estetica o neutralizzare accettandolo così come è. Mica facile: accettarlo significa riconoscerne la natura difettosa, manchevole, imperfetta, ma che, comunque e nonostante sia difettoso, va bene così.

Quando è una malattia, di qualsiasi tipo, a dover essere accettata, il processo è ancora più complesso. Nella percezione di un organo malato tendiamo a confinarlo in una zona di non salute, separarlo con l’immaginazione dal resto del corpo, creare una barriera tra la parte sana e quella malata per poterla accettare. Da un punto di vista psicologico questa operazione mentale nasce da un meccanismo di difesa che permette di tenere a bada il dolore e la difficoltà di integrare gli aspetti di sofferenza legati alla malattia ma allo stesso tempo ostruisce la possibilità di accogliere e attivare la comunicazione e connessione in senso globale e olistico di tutti gli organi o apparati corporei il cui contributo è fondamentale per la guarigione .

L’automatismo con il quale trasformiamo le differenze tra persone e gruppi sociali in ostacoli da neutralizzare, i tratti somatici in difetti da nascondere, le parti malate in territori da isolare, gli aspetti della personalità in sintomi da curare, attiva colture virali capaci di  produrre il virus della dissociazione e della discriminazione. L’accettazione, nel tentativo di neutralizzare un aspetto disturbante la norma, rischia di paralizzare le possibilità di osservazione, accoglienza, dialogo e può attivare escalation conflittuali potenzialmente dannose per la salute collettiva.

Esplorare e analizzare i rischi della “accettazione a tutti i costi” porta a riflettere sulla possibilità, o forse necessità, di sperimentare modalità altre di approccio alle differenze, basate sull’ascolto, sull’empatia, sull’accoglienza. Se l’accettazione separa, chiude, confina, l’accoglienza apre, dialoga, osserva, attiva la curiosità, si chiede il perché delle cose destrutturando le gerarchie che ne definiscono un ordine. L’accoglienza permette il rispetto e il confronto paritario, accompagna verso l’uscita da uno spazio di giudizio verso un territorio di esplorazione delle differenze e, perché no, delle possibili dissonanze, e permette di elaborare le conflittualità anziché evitarle o renderle distruttive. Questa operazione richiede prima di ogni altra cosa di fare un lavoro su di sè, sulle proprie aree limite, chiedendoci cosa accettiamo, cosa non riusciamo a rispettare di noi e degli altri. Occorre sostituire il giudizio che svalorizza, toglie prezzo alla stima personale e verso l’altro, con l’ascolto accogliente, che restituisce valore, simmetria, rispetto, possibilità positivamente trasformative ed evolutive. Occorre uscire dalla dicotomia noi/voi, abbandonare il noi, passare all’esperienza personale e lasciare andare la gelosia con cui ci si aggrappa alle proprie convinzioni.

 

Io vedo che, quando allargo le braccia, i muri cadono.
Accoglienza vuol dire costruire dei ponti e non dei muri.
Don Andrea Gallo

Educare per prevenire: genitorialità, sessualità, affettività. Dolianova 29 novembre

In occasione della manifestazione nazionale contro la violenza di genere del 25 novembre 2017 e della giornata mondiale contro l’AIDS, l’associazione La Formica Viola in collaborazione con La Biblioteca Comunale di Dolianova, la cooperativa la Memoria Storica e ARC ONLUS, con il patrocinio del Comune di Dolianova, promuovono l’evento Educare per prevenire: genitorialità, affettività, sessualità.

Un incontro per genitori che si propone di affrontare il tema della sessualità costruendo strumenti di riflessione e comunicazione con i propri figli e le proprie figlie, per sviluppare un approccio olistico e positivo verso la sessualità, considerata come una dimensione globale della personalità che, insieme a quella affettiva, cognitiva e sociale, concorre a formare la soggettività e il pieno sviluppo personale e relazionale.

L’attività si svolgerà presso i locali della Biblioteca Comunale di Dolianova mercoledì 29 novembre alle ore 17.00, per permettere a tutt* di aderire, inclusi i papà, in contemporanea all’ incontro con i genitori, i bambini e bambine potranno partecipare al laboratorio “I colori delle emozioni”, curato dalle operatrici della Biblioteca.

Nello specifico gli obiettivi del laboratorio Educare per prevenire sono quelli di prendere consapevolezza dell’influenza dei propri modelli relativi alla sessualità nel comunicare con i/le figli/figlie, sviluppare una visione olistica della sessualità e della salute sessuale, anche rispetto alla prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili, sperimentare e sviluppare modalità di comunicazione genitori-figli/e adeguate all’età, migliorare la capacità e la disponibilità all’ascolto dei bisogni conoscitivi dei bambini e delle bambine in relazione all’affettività e alla sessualità.

Il laboratorio si rivolge a genitori (in coppia o singolarmente) di qualsiasi età accomunati dal bisogno di confrontarsi sull’educazione alla sessualità e all’affettività, si realizza in un incontro della durata due ore con il coinvolgimento dei/delle partecipanti in attività ludico-esperienziali, role playing, lettura di libri e momenti di riflessione e condivisione.
Conduce l’attività Francesca Fadda, Psicologa, psicoterapeuta sistemico relazionale, attualmente in formazione come psicosessuologa presso l’IISS – Istituto Italiano di Sessuologia Scientifica di Roma, co-fondatrice dell’associazione La Formica Viola.

La partecipazione è gratuita previa iscrizione e fino a esaurimento posti, per un massimo di 16 partecipanti. Inviare email preferibilmente entro il il 27 novembre a fadda.francesca@gmail.com o messaggio whatsapp/sms al 3472114917, specificare numero ed età dei bambini e delle bambine che si desidera iscrivere al laboratorio “I colori delle emozioni”.

ARC onlus metterà a disposizione dei partecipanti opuscoli informativi sulle MST.

Locandina Educare per prevenire

Essere Arciere del proprio destino

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Ogni giorno lanciamo una quantità innumerevole di frecce senza averne la piena consapevolezza. Idee, proposte, messaggi, obiettivi, azioni partono in automatico private di una precisa intenzione e cura del processo che dalla preparazione porta alla sua realizzazione.

Spesso dopo aver scoccato una freccia ci giriamo da un’altra parte, ancora prima che la nostra intenzione abbia raggiunto la sua destinazione. Dirigiamo la nostra attenzione verso un altro bersaglio ancora prima di osservare il momento in cui arriva al centro di ciò che avevamo deciso. Scocchiamo un’altra freccia ancora prima di poter vedere quella appena lanciata arrivare e penetrare profondamente l’obiettivo, oppure mancarlo o fermarsi molto prima.

Questa modalità automatica comporta un grande dispendio di energie, fisiche, mentali, emotive. Frammenta l’agire, genera impulsività e può essere fonte di ansia, insoddisfazione e frustrazione rispetto alla propria vita, in una sua area, dai grandi progetti lavorativi al modo di prepararci il cibo, o in modo generalizzato.

Quando facciamo un risotto, per esempio, non dovremmo allontanarci dal tegame e distrarci guardando il cellulare o nel frattempo cucinare altre pietanze, ma girare il nostro cucchiaio in legno, con cura e attenzione, lasciarlo andare e riprenderlo, più e più volte, fino alla cottura, e infine dedicarci a contemplare ciò che abbiamo cucinato per tutto il tempo di riposo necessario prima di  servirlo.

Allo stesso modo anche in ogni nostra piccola azione quotidiana dovremmo accompagnare l’euforia e l’adrenalina del bambino alla cura dell’adulto. Unire la ribellione al coraggio, il sogno alla determinazione. Essere arcieri e arciere delle proprie frecce, mantenere l’equilibrio, la calma e la centratura su di sé, guardarsi dentro per non perdere la posizione necessaria al lancio e non rischiare di accumulare tensioni, stress e stanchezza che potrebbero deviare l’attenzione su altri stimoli o portare ad agire troppo frettolosamente.

Preparasi, mirare e rilasciare la freccia.

Seguire il suo corso è osservare il flusso dell’energia, è mantenere fede alla promessa fatta alla nostra intenzione, al nostro desiderio d’agire e di ottenere qualcosa, è molto semplicemente quel crederci fino in fondo che pronunciamo per incoraggiarci ma spesso senza troppa convinzione.

“Io sono Merida e voglio gareggiare per ottenere la mia mano!”

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Tuttavia preparasi, mirare e rilasciare la freccia non è sufficiente.

Nel film The Brave (2012), la protagonista Merida,  obbligata ben presto al vestito troppo stretto del ruolo di principessa e ambita  sposa da ben tre clan,  non mostrando interesse per i suoi pretendenti intenti a ostentare la propria forza e raccontare le proprie gesta eroiche, trasforma il combattimento per la sua mano in una sfida al tiro con l’arco in cui lei stessa diventerà la protagonista del contendere la sua mano. L’incontenibile energia della protagonista ribelle la porterà però ad agire di fretta e impulsivamente, quasi come se avesse scoccato la freccia troppo presto senza prendersi il tempo di comprendere le conseguenze delle sue azioni. Si ritroverà vincitrice e vinta allo stesso tempo e di fronte ad un destino che crede di non poter cambiare l’unica e più veloce soluzione possibile ai suoi occhi, in un momento di disperazione, sarà quella di affidarsi ad una strega. Nel dramma di un incantesimo che ha trasformato sua madre in Orso troverà la chiave per  la sua vita: “se il destino vuoi cambiare dentro devi guardare e lo strappo dall’orgoglio causato riparare”.

L’incantesimo permette a Merida di scoprire un nuovo canale di comunicazione con la madre, rendersi conto che ogni avvenimento è stato il risultato delle sue intenzioni e azioni, che ogni freccia lanciata ha creato una profonda lacerazione nella sua storia, senza che se ne rendesse conto. Ma proprio con questa consapevolezza ha trovato la saggezza necessaria a riparare il suo arazzo e  affermare se stessa.

Dopo aver rilasciato la freccia è necessario stare in attesa, in presenza e osservazione. Aspettare il compimento dell’azione e il suo risultato. Averne cura. 

Solo in questo modo Merida troverà il coraggio di riconoscere che al proprio destino si comanda, solo in questo modo diventerà Arciere del proprio destino.

Merida

 

Affrontare il tema della sessualità a volte è più difficile che parlare del terrorismo!

22879218_10215134437703732_274428736_oAffrontare il tema della sessualità a volte è più difficile che parlare del terrorismo! Questa affermazione molto forte ma emblematica racchiude il senso dell’incontro per genitori “Educare allla sessualità”  avvenuto il 24 ottobre 2017 nell’ambito dell’iniziativa Settimane del Benessere 2017 promossa dall’Ordine degli Psicologi della Sardegna, presso la sede di ARC onlus.

La formazione sessuale, quale territorio così importante per lo sviluppo della personalità, insieme alla crescita affettiva, cognitiva e sociale, sembra disseminata di mine silenti: antichi tabù, paure, incertezze, blocchi e solitudini. Compito del genitore è ripercorrere le proprie tappe, rinarrarle per trasformare quelle mine in risorse e riuscire così ad  accompagnare i propri figli e le proprie figlie nel percorso di costruzione della propria identità, della propria mappa del mondo di relazioni e legami.

Durante il laboratorio di ieri, attraverso il confronto e la condivisione, si  è generato un grande senso di fiducia, ci si è dato il permesso di parlare, il coraggio di raccontare anche i propri limiti per capire che sono proprio questi la chiave di volta nell’educazione alla sessualità e all’affettività. Si è pure scoperto che parlare tra mamme di sessualità è divertente e piacevole e che potrebbe essere vissuto con altrettanta leggerezza anche nella relazione con i figli e le figlie. Come si parla di argomenti complessi, come il  terrorismo, si può parlare di sessualità, in modo diretto e sereno, per preparare ad affrontare la vita con responsabilità e appagamento, consapevoli dei rischi, con gli strumenti per affrontarli in sicurezza, ma anche delle dimensioni piacevoli e di benessere che la sessualità riserva.

A conclusione dell’incontro ci siamo lasciate però con un grande interrogativo:

dove sono i papà?

In attesa di chiederlo direttamente agli interessati e avere una loro forte partecipazione, progetteremo i prossimi incontri a tema, partendo proprio dai bisogni espressi durante questo e altri laboratori realizzati precedentemente.

Chi desidera essere informat* sulle prossime iniziative può chiedere di iscriversi alla mailing list genitori inviando una mail a fadda.francesca@gmail.com e seguire le iniziative su facebook sulla pagina ARC onlus e Dott.ssa Francesca Fadda Psicologa Psicoterapeuta.

Sessualità in gravidanza? Un filo rosso che alimenta la conoscenza di sé

Pubblicato da http://www.ilclubdeigenitori.it

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La gravidanza e la nascita di un/a figlio/a sono eventi estremamente significativi del ciclo di vita individuale e della coppia. Un carico di aspettative, investimenti, emozioni e paure invade lo spazio vitale, attivando un processo di cambiamento e ridefinizione dei luoghi identitari e relazionali e una rinegoziazione di regole in numerose aree fisiche e simboliche. Ad essere perturbata è più di tutte la sfera della sessualità, ignorata dai servizi e ammantata di stereotipi e false convinzioni che ne impediscono una armoniosa e piena espressione in un momento estremamente importante della propria esistenza.
Se da un lato, infatti, osserviamo una crescente attenzione verso la maternità con interventi di preparazione al parto, dall’altra si riscontra una certa trascuratezza per l’intimità e la sessualità della coppia, tanto per la donna quanto per l’uomo. Secondo una ricerca del 2009 (Brtnicka) il 76% delle donne incinta esprime il bisogno di avere informazioni sulla sessualità nei consultori familiari e circa la metà dichiara di aver ricevuto informazioni insufficienti dal personale sanitario. Inoltre, mentre molte/i ginecologhe/i dichiarano di discutere di problematiche sessuali con le donne in gravidanza e nel post partum, i due terzi delle donne non ne ha alcuna memoria.
La carenza di informazione e la medicalizzazione ancora forte della gravidanza, hanno portato ad una sua desessualizzazione. L’associazione del momento della nascita al dolore allontana e nega la dimensione del piacere, mettendo in modalità di attesa l’esperienza intima della gestazione, per la coppia, per i singoli partner, per le mamme che si preparano alla creazione di una famiglia monoparentale.

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Alla fine degli anni 70 un noto programma di ricerca condotto da Masters e Johnson ha dato il via ad una grande quantità di studi in tutto il mondo sull’influenza della gravidanza sull’erotismo e in particolare sulla risposta sessuale femminile, contribuendo a sfatare falsi miti e pregiudizi sull’attività sessuale durante la gestazione.
Alcuni tra i più diffusi stereotipi sulla sessualità in gravidanza sono ancora facilmente riscontrabili, in particolare quelli per cui le donne gravide perdono interesse per il sesso e non riescono ad avere orgasmi, insieme alla convinzione per cui il rapporto sessuale praticato nei primi mesi di gravidanza può essere pericoloso per il feto o ancora che gli uomini non dimostrano interesse sessuale per le donne incinte. Vale la pena menzionare anche quelli un po’ più fantasiosi e divertenti, come la credenza che lo sperma possa arrivare fino al bambino che lo userà come nutrimento o che fare l’amore in gravidanza indurrà il nascituro ad avere un maggiore desiderio sessuale (Panzeri, Donà, & Cusinato,2006, p. 2).
La maggior parte degli studi converge nel dimostrare, in maniera più o meno accentuata, differenze tra i tre trimestri della gravidanza nella vita sessuale, valutandone la qualità in riferimento ai diversi parametri della funzione sessuale: desiderio, eccitazione orgasmo, soddisfazione e frequenza dei rapporti.
Nel primo trimestre l’erotismo e l’efficienza nell’attività sessuale risultano molto variabili, ma complessivamente si assiste ad un calo notevole del desiderio e della frequenza dei rapporti. L’erotismo, minimo o inesistente, lascia spazio alle preoccupazioni per il/la nascituro/a e al prendere confidenza con i primi cambiamenti fisici, ormonali ed emotivi. Un insieme complesso di fattori concorre nel determinare la percezione di una ridotta attrazione per il/la partner e una diminuzione dell’eccitabilità sessuale.
Le cose iniziano a cambiare all’inizio del secondo trimestre con un migliore stato di benessere, dovuto al venir meno delle nausee e dei disturbi somatici, al miglioramento dell’umore e all’elaborazione emotiva della gravidanza. Un nuovo equilibrio psicofisico sembra risvegliare l’erotismo con un aumentato interesse per l’attività sessuale, sia per il coito che per l’autoerotismo, e una maggiore facilità e frequenza nel raggiungimento della fase orgasmica, dovuta, probabilmente, anche ad un aumento della secrezione lubrificante vaginale (legata ad una maggiore congestione venosa del canale vaginale), che si presenta proprio a partire alla fine del primo trimestre e permane per tutto il resto della gravidanza.
Nel terzo trimestre si verifica nuovamente una riduzione notevole dell’attività sessuale, dovuta presumibilmente sia a fattori fisici, come l’aumento di peso e i cambiamenti nella fisiologia vaginale, e psicologici, legati soprattutto alle preoccupazioni e alle paure ispirate all’avvicinarsi del parto. Spesso sono i medici a vietare i rapporti sessuali in questa fase e per i tre mesi successivi alla gravidanza, una proibizione che genera malcontento se non supportata da una valutazione soggettiva della situazione di salute della donna e da una corretta informazione alla coppia. Sembra infatti esserci una correlazione forte tra il grado di informazione della donna da parte dal ginecologo e il suo piacere sessuale in gravidanza, questo vale anche per il partner, che se coinvolto vive con meno frustrazione la prescrizione di continenza, comprendendone le motivazioni, e vive con una maggiore partecipazione attiva il percorso della gravidanza.
Dopo la nascita la ripresa dell’attività sessuale è molto lenta, tra le spiegazioni più frequenti vi sono la stanchezza e il senso di debolezza, i dolori durante il coito, l’irritazione della vagina e il timore che i rapporti possano danneggiare il fisico. Il parto cesareo sembra influire molto meno rispetto a quello naturale con episiotomia, infatti la guarigione del perineo e i dolori che ne derivano possono rappresentare un freno reale alla ripresa dei rapporti sessuali. Sembra che l’allattamento abbia invece un ruolo acceleratore del risveglio dell’interesse sessuale, l’argomento è ancora avvolto dal pregiudizio, ma molte donne raccontano di essersi sentite stimolate dalla suzione. In generale, entro le prime sei settimane e due mesi dal parto, tutte le funzioni sessuali possono riprendere l’andamento che avevano precedentemente. La qualità della sessualità prima del concepimento ha un’influenza rilevante durante l’intera gravidanza e nella ripresa dell’intimità dopo il parto.
Nel tempo che precede e attraversa la gestazione è di grande importanza portare l’attenzione sulla comunicazione all’interno della coppia, promuovere uno scambio continuo che sviluppi una consapevolezza reciproca dei propri vissuti intimi, mantenere attivo il legame erotico anche quando, naturalmente o per sopraggiunte condizioni mediche, richieda di essere allentato. Creare uno spazio di condivisione e contatto, in cui in maniera creativa si possano sperimentare fantasie ed effusioni, permette di vivere in maniera più armoniosa e sana la relazione, allenando i muscoli emotivi al raggiungimento di un nuovo equilibrio tra intimità e genitorialità. Nutrire questo spazio permetterà un allargamento funzionale e graduale del sistema relazionale, facendo in modo che il/la figlio/a prenda posto nel suo nido senza che questo occupi la casa simbolica della coppia e lo spazio delle identità.
Come nella leggenda giapponese del filo rosso, la sessualità può diventare quel cordoncino da tenere stretto durante la gravidanza, quale simbolo di una ricerca che alimenta la conoscenza di sé, il contatto con la propria parte più profonda, la vicinanza emotiva ed intima con la persona con cui si è scelto, se lo si è scelto, di condividere uno dei passaggi evolutivi più delicati del proprio cammino. Il filo rosso legato al mignolo non è visibile, ma è molto lungo e indistruttibile, si aggroviglia e crea intrecci che possono mettere alla prova chi tiene i due capi. In un gioco di tensioni e rilasci, ogni singolo groviglio sciolto rappresenta il superamento di un ostacolo, ogni nodo districato il rafforzamento del legame.

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Bibliografia

Brtnicka H., Weiss P., Zverina J. (2009). Huan sexuality during pregnancy and the post partum period. Batisl Lek Listy, 110 (7): 427 – 31.

Carta S. (1996). Via familiare. Strutture, processi, conflitti. Milano, Giuffrè Editore

Coluccini F. (2016). La sessualità in gravidanza. Un progetto di educazione sessuale per coppie in attesa. Rivista Elementi di sessuologia

Masters, W., & Johnson, V. (1967). L’atto sessuale nell’uomo e nella donna. Milano, Feltrinelli

Panzeri, M., Donà, M.A., Cusinato, M. (2006). La sessualità della coppia nel ciclo di vita familiare. Rivista di Sessuologia, 30, 93-97.
Piu F. (2008). Gravidanza e sessualità. Tesi di specializzazione Istituto Italiano di Sessuologia Roma
Zagaria L. (2016). Dalla diade alla triade. Variazioni e ripercussioni sulla vita sessuale di coppia. Tesi di specializzazione Istituto Italiano di Sessuologia Roma